sabato 6 marzo 2010

Tra tagli “epocali” e riforme “epocali”: l’eclissi della scuola

di Lorenzo Capitani

Genitori che si trascinano da una scuola all’altra, affollando le provate aule “multimediali”, sempre più spaesati di fronte ad una scelta impegnativa come quella degli studi superiori, che avviene nell’incertezza più assoluta; dirigenti scolastici, stretti tra le ultime direttive ministeriali e le pressioni di ogni disciplina che si sente sacrificata dai nuovi indirizzi, peraltro ancora assai confusi, in vista dei vari meandri attuativi; docenti rassegnati di fronte ai vari proclami, storditi da un decennio in cui “si sono susseguite riforme e innovazioni (vere, presunte, false)”, inermi di fronte ai processi di delegittimazione cui sono stati sistematicamente sottoposti; precari, umiliati e offesi da un sistema che prima li ha spremuti poi illusi ( con provvedimenti riformatori mai sostanzialmente attuati) infine abbandonati sull’altare dei sacrifici di una crisi generale; studenti, sempre uguali e diversi, nei tempi che mutano, ma che non oscurano la loro voglia di esserci, del tutto inconsapevoli tuttavia di un futuro che sembra svanire.
Si potrebbe a lungo continuare su questa strada della “fenomenologia” della crisi della scuola, che ha dato vita del resto ad un vero e proprio genere letterario, con esiti per la verità molto discutibili.
Ma chi lavora da una vita nei luoghi scolastici non prova particolare simpatia per queste ricostruzioni e assiste alquanto smarrito al dispiegarsi di  un discorso pubblico intorno alla scuola, che vede il ripetersi stancamente di due stantie rappresentazioni.
A destra, per semplificare, il rigore e il merito, le nuove bandiere che guidano una ridicola “restaurazione”, contro il nemico ormai alle corde, il mitico ’68, considerato colpevole di ogni misfatto culturale, non l’origine di un processo liberatorio, pur se fragile e contraddittorio, delle coscienze e della cultura, nel mondo occidentale. Campagne propagandistiche e misure di severità di facciata, che ben presto rivelano tutta la loro inconsistenza: si pensi alla tragicomica vicenda del voto in condotta, oggettivo contributo alla elevazione gratuita delle medie della gran parte della popolazione studentesca.
A sinistra, l’insistenza spesso demagogica sulle politiche inclusive (“non uno di meno”), che hanno rischiato  e rischiano di apparire predicatorie e indifferenti ai processi di caduta di credibilità che sta conoscendo la scolarizzazione di massa. Don Milani non si sarebbe mai sognato di attenuare il messaggio dello sforzo e della fatica, che deve caratterizzare ogni reale processo educativo. Ma sono cose già dette, per lo più inutilmente, da quanti, spesso con passione, in questi anni hanno ricordato il magistero gramsciano o le acutissime diagnosi pasoliniane, che alla scuola ha voluto dedicare alcuni dei suoi maggiori sforzi e delle sue più profonde provocazioni.
“Chiudere la scuola”, voleva dire ripensarla, contro i tanti luoghi comuni. Ma nessuno è sembrato aver la voglia o la forza di farlo.
Così, sia nella “nostalgia” della destra per un mondo che non c’è più sia nei vagheggiamenti della sinistra di una scuola ridotta spesso al vano inseguimento del contemporaneo, un esito comune: l’incapacità di fare i conti, veramente, con un fenomeno comune a tutto l’Occidente, quello della progressiva perdita di senso del momento formativo, proprio nel luogo storico e culturale in cui aveva preso il suo avvio.
Su tutto questo scenario, che già non appariva promettente, ora si abbatte la scure di Tremonti e il perbenismo gelminiano.
Qui non c’è spazio per analisi dettagliate, ma certo l’orizzonte in cui siamo entrati cambia radicalmente il quadro, poiché i sacrifici richiesti alla scuola sia in termini di risorse concrete, relative al mero funzionamento ordinario, sia in termini occupazionali, per decine di migliaia di educatori, risultano davvero impressionanti.
Un vento dal sapore punitivo, simboleggiato dalle odiose misure sul trattamento di malattia dei docenti, che, prendendo spunto da reali problemi anche di razionalizzazione della spesa, tende a travolgere ogni cosa. Riportare l’ordine nella scuola, intanto tagliando, con una logica indiscriminata, come da più parti è stato sottolineato, “logica che precede qualunque riflessione sulla compatibilità con le diverse situazioni territoriali e sulla complessità dei territori e delle scuole e che ignora ogni considerazione di natura proiettiva e previsionale”(Simonetta Salacone).
La stessa “riforma epocale” di cui si sta parlando in questi giorni, cioè la revisione degli indirizzi delle superiori, da tante parti auspicata ormai da anni, perde qualsiasi valenza programmatoria e riformatrice, poiché ispirata da una logica pura e semplice del risparmio di fondi da realizzare subito e neppure da reinvestire nella scuola stessa, con tutte le drammatiche esigenze ad esempio sulla edilizia scolastica. La scuola per fare cassa: questo il rigore, questa la nuova serietà degli studi, il riscatto definitivo dal lassismo sessantottesco.
Come rispondere? Perché sembra prevalere la rassegnazione? Perché una “rivolta” popolare non si profila di fronte ad una Costituzione chiaramente umiliata, quando si svillaneggia il diritto allo studio insieme peraltro alla centralità del lavoro?
La risposta non è facile. Bisognerebbe ricostruire gli effetti di un pensiero comune diffuso, quello del primato dell’apparire e del denaro e del successo mediatico. Una analisi che ci porterebbe lontano, anche sulla lotta impari tra il rigore del momento formativo e le sirene del consumo globale.
Ma una cosa si può dire: per rispondere ad una così massiccia offensiva, bisogna avere le idee chiare. Non basta denunciare la politica dei tagli, difendere l’esistente quando magari molto è indifendibile, non solo rinchiudersi nei propri recinti, ma fare i conti davvero con la complessità del presente, che non può essere annullata da schemi pregiudiziali.
Ad esempio, all’odiosa riproposizione di una sorta di avviamento al lavoro, tipica degli anni ’50, per la fascia più delicata dei giovani che finiscono le medie inferiori, non si può replicare solo con la bandiera dell’elevamento dell’obbligo, senza fare i conti con le gravi difficoltà che questa misura ha già comportato nei primi anni, specie dei professionali. L’elevamento può avere un senso se adeguatamente supportato, ma forse più importante ancora sarebbe rovesciare il ragionamento, cioè facilitare il reinserimento scolastico per chi magari ha fatto, per le ragioni più varie, la scelta del lavoro. La scuola parcheggio non può essere la bandiera di una sinistra dei diritti e dei doveri.
E ancora, la revisione degli indirizzi superiori potrebbe essere l’occasione, pur nei limiti delle condizioni date, di guardare con occhio razionale e riformatore al nostro sistema formativo, magari rivedendo con coraggio antiche separazioni, valorizzando ciò che di meglio è stato compiuto e superando ciò che è legato a consolidate rendite di posizione. Invece, l’impressione di questi giorni è malinconica. Tutti lì a difendere la propria mezz’ora, la propria esperienza sperimentale considerata unica e intoccabile, il proprio edificio da cui non ci si può muovere, la propria vocazione considerata naturale. Una competizione insensata tra le scuole, una lotta senza quartiere, giocata a volte anche sul discredito dell’altro. Solidarietà che vengono meno, vincoli culturali che si fanno sempre più fragili. Mentre la nave affonda, un grottesco giro di valzer.
Ci piacerebbe respirare un’altra aria. Del resto sono ancora tante le energie che si spendono nella scuola. Esperienze spesso sconosciute, al di là dei tanti progetti cresciuti forse troppo, sull’onda della ricerca esasperata del minimo finanziamento, e lo spettacolo dell’improvviso interesse di un giovane per una conoscenza nuova pronto è lì pronto a riprodursi, solo che lo si ricerchi intensamente e con onestà intellettuale.
Ecco perché, oltre il contingente, la nostra comunità è chiamata ad un nuovo salto di qualità sull’insieme delle politiche scolastiche; una nuova mobilitazione delle forze culturali e sociali più sensibili intorno alla ricerca educativa può forse delinearsi, facendo leva su alcune vere emergenze che emergono da uno sguardo non consolatorio sulla nostra scuola.
Una educazione costituzionale priva di retorica, ma volta a favorire una consapevolezza più matura sul significato stesso di “cittadinanza attiva”, un approccio rigoroso alla conoscenza del discorso religioso, sul quale misuriamo oggi una ignoranza diffusa, che non facilita certo un serio discorso sull’incontro tra le diverse culture, un recupero fondamentale della dimensione storica, che rischia di non far più parte del bagaglio essenziale di un giovane in formazione.
Gli allarmi gridati e mai attentamente valutati su alcune lacune essenziali, riguardanti l’approccio linguistico e quello con le discipline matematiche, infine, non ci possono comunque lasciare indifferenti.
Sono queste le emergenze, sono di natura culturale in primo luogo. La risposta a queste emergenze caratterizza il profilo di un progetto autenticamente riformatore. Così la scuola potrebbe ritrovare la sua anima e gli utenti primi potrebbero tornare a chiamarsi studenti.
Non intendo sottovalutare le problematiche relative agli standard minimi, ai criteri di valutazione, alla formazione dei docenti, ma senza una ripresa di interesse per il significato profondo dell’esperienza scolastica ogni discorso rischia, al di là delle migliori intenzioni, di farsi burocrazia e di perdersi nei “mille linguaggi” delle circolari.
L’eclissi della scuola non è la chiusura di Pasolini, è un po’ il tramonto di una civiltà che progetta liberamente, non sotto il vincolo di una superiore autorità, qualunque essa sia.
Per contrastare questa deriva si potrebbe cominciare anche da una piccola proposta.
Di fronte alle difficoltà economiche, di fronte ai tagli, di fronte alla riduzione degli orari, facciamo degli edifici scolastici, con il concorso di tutta la comunità, luoghi aperti l’intera giornata in cui sia possibile studiare, progettare, recitare, discutere, ascoltare e fare musica. Una nuova centralità della scuola come riferimento permanente di una città che non si ripiega su se stessa. La dimensione fondamentale dello studio individuale non ne soffrirebbe, ma potrebbe invece trovare un nuovo alimento, attraverso vari percorsi anche di avvicinamento e di confronto tra scuole diverse e giovani dai molteplici interessi. Una scuola di questo genere rappresenterebbe una prima risposta alla crisi che stiamo attraversando, anche soltanto come opportunità e come apertura. Del resto si tratterebbe da noi di rafforzare e sostenere molte esperienze già presenti, che attendono di essere adeguatamente valorizzate.
Ci sono stati momenti nella nostra storia in cui le difficoltà hanno attivato nuove potenzialità. Da questo punto di vista l’immagine di una scuola che nasce dalle macerie della guerra per una esplicita e convinta volontà popolare, rievocata nel famoso articolo americano sulle scuole materne reggiane, rappresenta forse uno dei segni più vitali a cui fare riferimento, nei tempi difficili che ci attendono.

Nessun commento:

Posta un commento

L'inserimento dei commenti su questo blog implica l'accettazione della policy.