Siamo da 12 anni in stagnazione e da 3 in recessione. Nessuno degli economisti mainstream l’aveva previsto, e molti anzi tessevano le lodi della nuova finanza, capace con nuovi strumenti (i famosi derivati e simili) di gestire e ripartire il rischio.
Oggi fanno gli auruspici: vedono una luce in fondo al tunnel, buttano lì dei numeri che devono regolarmente correggere. Non hanno capito come è arrivata la crisi, non sanno quando e come potrà finire. Alcuni in verità avevano intravisto la tempesta, ma venivano trattati come menagrami, ed erano per lo più fuori dal coro della liturgia neoliberista.
Ma era quello il loro vantaggio: guardavano alla realtà sociale ed economica senza gli occhiali di una ideologia che rende ciechi. Questa crisi dovrebbe essere la tomba del liberismo. Invece proprio coloro che non capirono, oggi ci offrono ricette per guarire. Ad alcuni, come Monti, è capitato di avere la guida del paese. Per salvarlo, si disse; ma ha continuato a fare quello che faceva Tremonti, senza il fastidioso circo di nani e ballerine che tanto piaceva (e piace) a Berlusconi.
Il clima è così ammorbato che anche la sinistra fa fatica a impostare una corretta discussione sulle priorità per il paese (e chi lo abita). In questa campagna elettorale si parla di tasse (se ridurle, a chi ridurle, quali tagli fare alla spesa pubblica per compensarle, ecc.), come se la soluzione per venire fuori dall’avvitamento della recessione potesse passare semplicemente da lì.
Allora io che economista non sono provo a dire due o tre cose di buon senso che dovrebbero aiutarci a venirne fuori, magari guidati dal figlio di un benzinaio piacentino che ha studiato filosofia, e che affronta l’economia con aforismi zen.
Tutto comincia quando il castello dei prestiti facili in USA crolla per l’insolvenza dei neo acquirenti di case. La classe media e medio bassa non poteva più permettersi il sogno americano: i salari e gli stipendi si erano abbassati per un decennio, e dunque per mantenere il livello di vita precedente ci si indebita. Ma l’altra faccia della medaglia è che c'erano capitali crescenti che cercavano un impiego. Erano i funzionari delle banche che cercavano i mutuatari e non il contrario. Per un decennio i ricchi sono diventati sempre più ricchi, sia per l’aumento dei compensi per i redditi di capitale o per i manager, che per la riduzione delle tasse sui ricchi fatta dai repubblicani.
In sintesi in USA i poveri sono più poveri e si indebitano, i ricchi sono sempre più ricchi e speculano. Il gioco ha funzionato per un po, ma prima o poi doveva fermarsi.
Nel nostro paese le cose sono simili, con qualche variazione in salsa italiana. Anche da noi i poveri sono sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi, ma qui si usa la spesa pubblica (e non quella privata) per stabilizzare il tutto. Ai ricchi si riducono le tasse garantendo l’impunità per un’evasione fiscale da record, ai poveri si concede un pò di welfare clientelare ed inefficiente. Il tutto con un incremento del debito pubblico che gli stessi evasori finanziano comprando i BOT. Il gioco ha funzionato per un po, ma prima o poi doveva fermarsi.
In sintesi la crisi è stata creata dall'aumento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Per venirne fuori occorrerà invertire questo dato che dura da un lustro. Ma non basterà.
La riduzione del reddito dei lavoratori è stata temperata e quasi nascosta, dall'emergere della Cina e dell’India come produttori a basso costo di merci. Abbiamo avuto meno soldi certo, ma nel contempo potevamo comprare a buon mercato. La delocalizzazione di aziende faceva perdere posti di lavoro in USA ed in Europa, ma permetteva di produrre quei beni a costi inferiori.
Il gioco ha funzionato per un po, ma prima o poi doveva fermarsi.
I paesi che vendono beni ad alta tecnologia, si sono avvantaggiati (la Germania ad es.) quelli come l’Italia, che vendono beni maturi, hanno cominciato a subire una erosione della propria base industriale con un correlato aumento della disoccupazione. Inoltre la crisi ecologica, aggravata anche dai metodi di produzione sporca permessi in quei paesi, ci ritorna addosso con un clima impazzito che causa disastri e costi conseguenti.
In sintesi non basterà un rilancio della domanda interna a far ripartire la crescita, perché potrebbe alimentare ulteriori importazioni con pesanti ripercussioni ambientali e sulla bilancia dei pagamenti. La crisi ha seppellito il neoliberismo, ma insieme a lui anche ogni concezione ingenua delle politiche keynesiane.
Occorre certamente un rilancio della domanda interna anche con una più equa distribuzione del reddito che metta qualcosa da spendere in mano a chi oggi non può farlo.
Ma bisogna porsi la domanda strategica di cosa produrremo noi o meglio i nostri figli per sostenere il nostro stile di vita. E se questo stesso stile di vita non sia da cambiare per ridurne l’impatto ecologico sul pianeta.
Per l’Italia tali domande sono più urgenti. Perdendo progressivamente il nostro apparato industriale, dobbiamo puntare su produzioni ad alto contenuto tecnologico, o subire un progressivo allineamento dei nostri redditi con quelli dei paesi concorrenti. Qui si misura il fallimento di una classe dirigente che non è solo quella politica, ma soprattutto quella imprenditoriale e manageriale che ha condotto il paese sull'orlo del baratro, ai margini di una regressione del livello di vita e di civiltà.
Avremo bisogno di tecnici, ingegneri e scienziati. E di scuole ed università di qualità che permettano anche ai figli delle classi meno abbienti di esprimere potenzialità che servono a tutta la società.
Avremo bisogno nuove tecnologie per il trasporto collettivo ed individuale, di nuove tecnologie energetiche, di manutenzione di abitazioni e di territorio a rischio ambientale, di un rilancio del turismo culturale che valorizzi il nostro patrimonio storico artistico.
Avremo bisogno di un “New Deal” della conoscenza e dell’intelligenza. Di un incremento della spesa pubblica per la formazione e la ricerca. Di un grande piano di investimenti in ecotecnologie energetiche, dei trasporti e dell’abitare.
Per finanziare tutto ciò servirà un ripensamento dei patti europei, e la rinuncia al patto evasione fiscale - spesa pubblica improduttiva. Ci vorrà un maggior contributo fiscale dei ceti abbienti, ci vorrà una oculata gestione della spesa pubblica. Esattamente l’opposto di quello che la destra populista o tecnocratica sono stati capaci di fare. E difatti dopo un gran parlare di merito, ci avviamo a gran passi verso una società divisa in caste. Ultimo dato il crollo delle iscrizioni all'università, conseguenza immediata dell’aumento del costo degli studi che ha distrutto la speranza di futuro dei figli delle classi sociali più colpite dalla crisi. Eravamo sull'orlo del baratro, questa destra rischia di dare la spinta decisiva .. verso il fondo.
Invece ci vorrà meno egoismo e più solidarietà sociale, fra classi sociali e generazioni, proprio quello che la sinistra sa fare meglio.
Una cosa è certa: non saranno gli economisti a salvarci. Meglio far provare un figlio di benzinaio.
michele bonforte
(*) rif. Georges Clemenceau (la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari)