martedì 19 febbraio 2013

Innovazione, competitività e sciopero degli investimenti.


Questa campagna elettorale sembra, se possibile, peggiore di quelle che l’hanno preceduta. Mentre la crisi economica miete giornalmente oltre 400 posti di lavoro, il dibattito elettorale se ne tiene a distanza, o si limita a proposte palliative. Se ne dolgono alcuni commentatori di importanti giornali (Repubblica, Corriere, ecc.) che indicano come la questione non sia come si redistribuisca la ricchezza attraverso le tasse, ma come la si possa produrre. Quasi sempre la ricetta è quella di aumentare la competitività, magari con profonde “riforme” del mercato del lavoro. Ora che il nostro paese soffra da anni di un problema di competitività è del tutto evidente. Mentre il mondo cambia, noi siamo ancorati prevalentemente a produzioni mature che subiscono la concorrenza di costo dei paesi emergenti (India e Cina in primis). Siamo in crisi sul mercato interno perché le famiglie si sono impoverite e spendono meno, ma siamo in crisi, salvo eccezioni, anche sul mercato esterno, perché i beni che produciamo li vendiamo a costi sempre meno giustificati dal loro contenuto qualitativo e tecnologico. Pensare dunque che il problema si possa risolvere abbassando i costi di produzione usando con forza la leva della riduzione del costo del lavoro è non solo ingiusto ed iniquo, ma anche miope e di breve prospettiva. 
Quello che si tralascia di far notare è che la competitività dipende innanzitutto dagli investimenti, dalla loro ricaduta sull'efficienza del processo produttivo o sull’innovazione dei prodotti. Il nostro paese soffre certamente le ricadute negative della corruzione, della amministrazione pubblica lenta, dei trasporti e dell’energia costosi, ecc. 
Ma la principale causa della stagnazione della produttività del sistema è la caduta degli investimenti privati e la riduzione della spesa pubblica per la formazione, l’università e la ricerca.
Piccoli e grandi gruppi impreditoriali hanno beneficiato nell’ultimo decennio di un costante trasferimento di risorse sottratte alle retribuzioni dei lavoratori, che difatti si sono impoveriti. Ma tali risorse sono finite prevalentemente a gonfiare i compensi dei manager o in investimenti sul mercato finanziario. Mentre altri paesi (vedi la Germania) affrontavano il nuovo secolo con investimenti e ristrutturazioni accompagnate da accordi sindacali per la tutela del lavoro, nel nostro paese si sono utilizzati gli anni delle vacche grasse per indebolire le tutele e il valore sociale del lavoro, e dirottare le risorse verso guadagni facili sui mercati finanziari, buoni ad alimentare successi effimeri che gonfiavano i compensi dei manager, nel mentre si scavava la fossa al sistema paese che anno dopo anno ha perso pezzi del suo settore industriale. Il settore pubblico ha agevolato questa involuzione con un attacco al sistema formativo e della ricerca che ha fortemente compromesso la nostra capacità di poter stare al passo con i paesi guida della comunità europea. Non solo abbiamo sempre meno laureati e meno ricercatori, ma quei pochi che abbiamo, quando sono bravi, devono migrare all’estero. Dopo anni di campagne meritocratiche, i laureati non sono i più capaci, ma semplicemente i figli dei ceti benestanti, che possono permettersi di sostenere il costo degli studi universitari, oggi inarrivabili per le famiglie con redditi da lavoro. La classe dirigente reale del paese, quella che in questi anni ha avuto il potere di fare e di decidere, è quella che siede nei consigli di amministrazione di aziende o banche. Essa ha, consapevolmente o no, portato questo paese dal novero di quelli sviluppati a quelli che vivono di sub-forniture e subappalti, con l’obbiettivo principale di colpire il lavoro, e di sottoporlo ad una cura di bassi salari ed alta disoccupazione per disciplinarlo, colpendone la storia di forte sindacalizzazione e consapevolezza sociale.
Come ha avuto modo di dire Luciano Gallino, la lotta di classe nel nostro paese negli ultimi anni l’hanno fatta i padroni: con uno sciopero degli investimenti, con l’attacco alla spesa pubblica che sostiene il welfare, con l’attacco ai diritti sul lavoro, ai contratti nazionali e al sistema pensionistico. 
La colpa più grave della politica è stata quella di aver ceduto il potere reale alla “casta” economica. E avendo poco da decidere si è dedicata in gran parte alla ricerca di piccoli o grandi privilegi. Oggi questi privilegi sono lo specchietto per le allodole per una massa di elettori delusi ed inferociti. Ma se vogliamo far uscire questo paese dalla spirale di recessione e deindustrializzazione occorre riportare il potere dai consigli di amministrazione alle aule parlamentari. Dove avviare una iniziativa pubblica che riporti al centro dell’attenzione il lavoro e la sua qualità, il sistema produttivo e gli investimenti in innovazione, la ricerca e un’università aperta ai capaci e meritevoli di ogni classe sociale.
Non è il tempo di affidarsi al primo pifferaio che passa.
Meglio, oggi, un concreto figlio di benzinai piacentini.


Michele Bonforte