giovedì 24 aprile 2014

La sinistra, la destra ed il lavoro.

Michele Bonforte

Il sapore elettorale degli 80 euro promessi da Renzi è evidente. Rimane il dubbio che vi sia una partita di giro, come al tempo del governo Letta fra IMU e TARES. Certo chi, come Berlusconi, si è specializzato in promesse mirabolanti e contratti televisivi, oggi dovrebbe tacere e meditare sul fatto che chi di promessa ferisce, di promesse perisce.
Renzi ha bisogno di un buon risultato elettorale come lavacro per la discutibile congiura di palazzo che lo ha portato al potere, e le promesse a questo servono. Ma subito dopo, diciamo a Settembre, sarà alle prese con il problema vero del paese: il lavoro, o meglio la sua mancanza, e le conseguenze del fiscal compact sulla nostra economia.
E non c’è tema come le politiche per l’occupazione, che riesca a rendere netto e percepibile il confine fra la destra e la sinistra.
L’anticipo del job act che abbiamo avuto, in merito ad apprendistato e flessibilità, è chiaramente figlio di una impostazione di destra sul tema. L’idea che ispira questo provvedimento è quella che da decenni ci ritroviamo fra i piedi senza costrutto. Secondo questa tesi (ribadisco, di destra) gli imprenditori non assumono perché temono l’instaurarsi di un vincolo che poi sarebbe difficilmente rescindibile. La destra liberista usa spesso la figura retorica del matrimonio: sarebbe più facile divorziare che licenziare un lavoratore fannullone. E dunque in forza di questa paura gli imprenditori si astengono dall’assumere.
A nulla vale che questa tesi sia falsificata da decenni di indagini sul campo, essa viene riproposta con fideistica sicumera.
Ma non è difficile constatare che in Italia la disoccupazione è maggiore al sud, dove c’è più economia sommersa e lavoro nero (la forma massima di flessibilità), e minore al nord, dove i sindacati sono più forti e riescono a far rispettare i contratti. Così come non è difficile constatare che esistono innumerevoli forme di flessibilità che ad oggi non hanno creato occupazione aggiuntiva, ma sostituito lavoratori tutelati con precari. Ed anche che licenziare non deve essere poi così difficile, se ogni anno si continuano a perdere posti di lavoro.



Curiosamente oggi persino la Confindustria si mostra prudente su questa impostazione. Certo, avere altri strumenti per rendere iperflessibile la manodopera non guasta mai. Ma il punto è che la flessibilità è ormai cosi ampia che averne ancora di più serve a poco.
Se non sai a chi vendere quello che produci, non assumi nessuno, precario o meno che sia.
Per far riprendere l’occupazione occorre far riprendere la domanda interna e soprattutto gli investimenti, pubblici e privati. I nuovi investimenti hanno l’effetto di creare direttamente lavoro, di fornire reddito a chi oggi non ne è ha proprio, e dunque lo impiegherebbe prevalentemente per il proprio sostentamento, facendo decollare la domanda interna.
Per tirarci fuori dai guai occorre la mano pubblica, un nuovo New Deal.
Gli 80 euro di Renzi, una misura che sa almeno di equità sociale, rischiano di coprire un job act dominato dalle ricette neoliberiste di sempre, responsabili di questa crisi, ed incapaci di lenire la disoccupazione, che continua ad aumentare.
Intanto, fra i milioni di disoccupati, fra cui molti giovani, matura una rabbia che ad oggi non trova sbocco.
Superata la sbornia degli 80 euro, o si risponde a questa rabbia, o si diventa il bersaglio di essa.
Con conseguenze per la tenuta democratica del paese tutte da verificare.

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