martedì 28 maggio 2013

In mezzo al disincanto, vincono con le primarie i candidati di sinistra, con il referendum le idee di sinistra.

Il popolo di sinistra, pur se frastornato dalla scelta del PD sul governissimo, manda ancora segnali di fiducia a chi propone partecipazione, cambiamento e alternativa.
L’astensione colpisce di più il M5S che non è stato capace di interpretare il mandato di chi lo aveva votato appena pochi mesi fa.
In mezzo a queste macerie la proposta di Marino a Roma incarna quello che non è il PD a livello nazionale: alternativo alla destra, partecipativo e dialogante con il suo popolo ed anche con chi ha scelto il M5S. Per il nostro elettorato il centrosinistra non è morto, anzi è l’unica risposta al governissimo ed alla sfiducia. Per quanto le manovre di palazzo, che hanno portato alla nascita del governo Letta, abbiano seminato delusione, il popolo di sinistra rimane attento ed attivo alla possibilità di contare, di decidere, di dare un indirizzo ed un senso al centro sinistra.
Ciò è accaduto anche a Bologna, dove ad una chiara domanda si è ottenuto una chiara risposta: la scuola pubblica è quella su cui investire, dopo anni di tagli. Sarebbe grave che il PD bolognese sottovalutasse questo chiaro mandato. C’è stato un confronto delle idee che ha interessato coloro che hanno a cuore la scuola. Se, con la scusa della bassa partecipazione, si ignorasse questo chiaro mandato, si rischierebbe di fare a Bologna il bis del referendum sulle farmacie comunali. Anche allora un chiaro mandato per il no alla privatizzazione fu ignorato e deriso dall’allora sindaco Vitali. E poco dopo a Bologna vinse la destra per la prima volta dal dopoguerra.
In questo frangente bisogna dare atto a Prodi di coraggio ed onestà politica per la sua dichiarazione: “Ero per l’opzione B, ha vinto la A: i referendum si accolgono. E questo ha raccolto i voti di coloro che più erano interessati ai temi della scuola.”

Michele Bonforte

lunedì 27 maggio 2013

Per un 2 giugno disarmato: due lettere costituzionali


Il 2 giugno del 1946, nelle prime elezioni a suffragio universale della storia italiana – dopo vent’anni di fascismo, la tragedia della guerra e la lotta di liberazione – si votò per il referendum tra monarchia e repubblica e per l’elezione dell’Assemblea costituente. Nacque da quelle elezioni la “Repubblica democratica fondata sul lavoro” come recita il primo principio della nostra Costituzione. Il 2 giugno, nel ricordo di quelle prime elezioni, è dunque la “Festa della Repubblica”. Dal 1950, per volere dell’allora ministro della difesa Pacciardi, l’evento principale della Festa della Repubblica è la parata militare; abolita nel 1992 dal Presidente Scalfaro, ripristinata nel 2001 da Carlo Azeglio Ciampi.
Nell’avvicinarsi delle celebrazioni, che prevedono anche quest’anno la contraddittoria e dispendiosa rassegna di uomini in armi, importanti network del mondo pacifista e nonviolento (Rete Italiana Disarmo e Tavolo Interventi Civili di Pace), solidale ( Campagna Sbilanciamoci), insieme agli enti di servizio civile (Conferenza Nazionale Enti Servizio Civile e Forum Nazionale Servizio Civile) insieme a moltissime altre realtà nazionali e locali, hanno scritto congiuntamente due lettere indirizzate rispettivamente al Presidente della Repubblica, per chiedere l’abolizione della parata, ed a tutti i parlamentari, per chiedere di disertarla, in obbedienza alla Costituzione.
Scrivono al Presidente affinché consideri che la Festa della Repubblica è la festa di tutti gli italiani e di tutte le categorie e per questo sollecitano “un’altra forma di celebrazione, che non associ simbolicamente la nostra repubblica alla sola forza militare”. Piuttosto, celebrare adeguatamente la Repubblica, scrivono i firmatari, significa “valorizzare le tante storie di chi ogni giorno s’impegna per il bene del nostro paese, lavorando per la coesione sociale, costruendo storie di pace, di giustizia di solidarietà”, perché è la stessa Costituzione che “ci indica come fondamento della nostra Repubblica sia la forza del lavoro, e non delle armi”. Senza dimenticare il Servizio Civile “unico parziale elemento che riesce a concretizzare quella “difesa non armata” della Patria”, prevista dal nostro ordinamento e ribadita dalla Corte costituzionale. Da ciò deriva la richiesta al Presidente di valorizzare queste esperienze civili, piuttosto che quelle militari. Le associazioni, i movimenti e gli enti, dal canto loro, il 2 giugno, “nello spirito dell’art 11 della Costituzione”, apriranno le sedi associative e quelle del servizio civile a tutti i cittadini che vorranno visitarle.
Gli stessi firmatari scrivono anche ai Presidenti di Camera e Senato, ai Capigruppo ed a tutti i parlamentari, ricordando loro che i primi 12 articoli della Costituzione, enunciando i principi fondamentali sui quali si fonda la nostra Repubblica, ne indicano come prima “identità” quella “democratica e fondata sul lavoro” e nell’articolo 11 è incastonato il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Per questo ritengono “che non risponda né alla lettera né allo spirito della nostra Costituzione celebrare la Festa della Repubblica con una parata militare”, la quale è invece il simbolo delle enormi spese militari che il nostro paese sostiene, compreso il progetto di acquisto dei cacciabombardieri F35 a capacità nucleare: “una scelta contro la Costituzione e dall’enorme sperpero di denaro sottratto alle tante necessità attuali (lavoro, sanità, istruzione, cultura, ricerca, protezione, pensioni, ecc.)”. E’ questa, scrivono ancora i firmatari “una contraddizione divenuta ormai incomprensibile per la gran parte dell’opinione pubblica”. Invitano pertanto i Parlamentari “a prendere posizione esplicita ed istituzionale attraverso un voto nelle due Camere, sulle modalità di celebrare la Festa della Repubblica”, partecipando invece alle celebrazioni civili, disarmate e nonviolente del 2 giugno “in piena obbedienza costituzionale”.
Insomma, un vero invito all’obiezione di coscienza verso la parata militare per un 2 giugno disarmato e costituzionale, a Roma e in tutta Italia. Se pure il presidente Napolitano anche quest’anno dovesse ignorare la lettera a lui indirizzata, sapranno almeno i parlamentari rispondere con un gesto di responsabilità costituzionale?
p.s.: a Reggio Emilia l'appuntamento per tutti è alla Scuola di Pace.
Pasquale Pugliese

TUTTI I RISCHI DELLA NUOVA STAZIONE TAV


L'8 giugno verrà inaugurata la stazione Mediopadana ad alta velocità. L'opera sarà celebrata unanimemente, non senza qualche ipocrisia, come testimonianza di modernità e di progresso. Credo, al contrario, che la storia recente del Paese abbia dimostrato la dannosità economica e sociale delle grandi opere, a cominciare proprio dall'alta velocità. Avremmo avuto bisogno, per il benessere e la salute dei cittadini, di potenziare la rete ferroviaria ordinaria e del trasporto merci in particolare, al fine di decongestionare le nostre città. Abbiamo gettato invece centinaia di miliardi di euro in un progetto che in futuro continuerà a gravare sulla fiscalità generale essendo strutturalmente in perdita su molte tratte (avremo una sorta di Alitalia terrestre).
Il limite sociale e finanziario delle cosiddette grandi opere è proprio questo: non sono in grado di generare risorse per il proprio mantenimento. Si dirà che questo è il prezzo da pagare al progresso e al suo mito più evocativo: la velocità. Peccato che una volta arrivati a Roma, Milano o qualsiasi altra città il mito lasci il passo ad una realtà fatta di ingorghi stradali e fallimentari politiche di trasporto pubblico. Tornando a noi, corre l'obbligo di sottolineato che verrà inaugurata una stazione al cui interno non sarà attivo alcun servizio: né un bar né un'edicola. Avremo dunque una rappresentazione insuperabile di ciò che intendiamo con "cattedrale nel deserto".
Credo che a questo punto il compito di tutti sia quello di creare le condizioni affinché quest'opera non rappresenti solo un costo per la città ma anche un'opportunità. Devo dire che ad oggi, specie sul fronte della classe dirigente imprenditoriale, non sono pervenuti grandi contributi. Vi sono inoltre due questioni alle quali prestare attenzione per il bene della città. La prima è impegnarsi affinché in futuro siano stroncate pulsioni speculative mille aree circostanti la stazione. L'amministrazione Delrio ha avuto il merito di placare gli appetiti facendo passare il concetto che non si doveva riempire alcuno spazio nella cosiddetta area nord. Credo che questo punto politico e programmatico debba essere ulteriormente approfondito dal centrosinistra al fine di fugare ogni possibile ambiguità. La seconda questione riguarda invece l'insegnamento più generale che dobbiamo trarre dalla vicenda delle grandi opere, specie quelle in salsa provinciale. Le vere grandi opere del futuro sono quelle capaci di rispondere in modo puntuale al benessere dei cittadini, quelle capaci di ricostruire tessuti urbani di comunità. Le grandi opere di cui abbiamo bisogno sono un piano di manutenzione straordinaria dell'edilizia scolastica, un piano per l'abbattimento delle barriere ambientali, un piano per la cura dei quartieri. E' bene darsi questi obiettivi a fronte di un possibile e significativo allentamento del patto di stabilità, avvero della possibilità di rimettere in campo un piano di lavori pubblici nei prossimi anni. La stazione mediopadana, con i suoi costi folli, è dunque un'opera del passato non del futuro. Il futuro intelligente è sostenibile, rinnovabile, generativo di risorse e non energivoro e dissipativo. L'immagine che meglio descrive la stazione di Calatrava è quella di una gigantesca cabina telefonica adagiata in mezzo al nulla nell'era degli smartphone; un cimelio del passato che dobbiamo conservare a futura memoria perché non si commettano più simili errori. Anche se non scommetterei sul fatto che i posteri non decidano di rimuovere quell'inutile cattedrale, troppo costosa e inadatta a stare al passo coi tempi.

Matteo Sassi (Assessore comunale di Reggio Emilia)

domenica 26 maggio 2013

Terrorismo di Stato

Con l’inizio della crisi economico-finanziaria si è verificato un fenomeno nuovo, sempre di più, si fa uso del metodo terroristico a diversi livelli: gli Stati Uniti con l’uso dei droni (in Medioriente e Africa) oltre ai metodi tradizionali dei servizi segreti. I francesi, con Sarkozy, hanno inviato i loro aerei a bombardare la Libia ancora prima della formalizzazione dell’operazione da parte dell’ONU, con F. Hollande l’invio di truppe in Mali. L’Inghilterra e il Qatar hanno introdotto armamenti in territorio siriano destinati alla resistenza interna. Ciò ha prodotto la guerra civile mentre la protesta popolare aveva tutt’altro profilo morale. La Russia fornisce armamenti al governo siriano, alla resistenza talebana in Afghanistan e agli Hezbollah libanesi ora anch’essi schierati nella guerra civile siriana. Oltre a ciò, si verificano un gran numero di attentati terroristici - non apparentemente strategici - che causano centinaia di vittime tra i civili, in Iraq, in Pakistan in Afghanistan, in Africa, e pure in Occidente. 

Non vi sono più dichiarazioni di guerra esplicite, perché un conflitto armato protratto nel tempo sarebbe troppo costoso, ma si fa uso sempre più del metodo mordi e fuggi da parte di tutti. 

Israele adotta questo metodo già da molto tempo contro palestinesi, con azioni militari vere e proprie ma anche con omicidi mirati verso esponenti della resistenza palestinese. Queste azioni sono decise e pianificate ai massimi livelli, dal “gabinetto di sicurezza”. Il vero problema è l’occupazione: dell’Occidente (Nato e USA) in Afganistan, in Iraq ecc., dell’influenza Siriana in Libano e dell’occupazione israeliana in Palestina. Indubbiamente, la maggior responsabilità è di chi per primo ha occupato (causa) e non di chi, se pure con ogni mezzo, difende la propria terra (effetto). 
Per quanto riguarda Israele, si deve dire che la perdita della sua identità (vedi articoli precedenti) s’identifica anche nel fatto che il popolo di Dio è ora divenuto un popolo bellicoso:



Quando venite a presentarvi a me,
chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri?

Smettete di presentare offerte inutili,
l'incenso è un abominio per me;
noviluni, sabati, assemblee sacre,
non posso sopportare delitto e solennità.

Dal libro del profeta Isaia (Cap. 1, 12-13)


Baruch ha Sofèr


sabato 25 maggio 2013

Ciao don Gallo, grazie per tutto quello che hai fatto


Ho incontrato per la prima volta don Andrea Gallo ormai molti anni fa. Mi chiamarono nella Bassa, se non ricordo male a Luzzara, per coordinare un dibattito al quale, tra altri ospiti, partecipava anche lui. Allora, il don era già conosciuto come personaggio anticonformista e battagliero, come prete decisamente schierato a sinistra, ma non ancora famoso e amato come sarebbe diventato in seguito.
A quella serata insieme, nel corso degli anni, ne sono seguite altre. Una a Bagnolo, mi pare all’inizio del 2003, comunque poco prima che in marzo Bush scatenasse la guerra in Iraq. Contro quella guerra, basata su motivazioni clamorosamente false, si sviluppò un grande movimento pacifista, al quale don Gallo naturalmente partecipò in prima fila. Anche a Bagnolo si costituì un comitato contro la guerra, che lo invitò ad una manifestazione in teatro. Io avevo il compito di coordinare la manifestazione, alla quale venne anche Tara Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi. Ma Gallo fu il vulcanico protagonista. Dopo, andammo a mangiare nella gelateria K2 e continuammo a conversare a lungo. Ripartì per Genova a tarda ora, quasi trascinato da uno dei “suoi” ragazzi della comunità San Benedetto al Porto, che gli faceva da autista.
Ci ritrovammo il 17 febbraio 2011 al Teatro Pedrazzoli di Fabbrico, in occasione del “Mese della memoria e della legalità” che quella amministrazione comunale e l’Anpi organizzano ogni anno. Avevo (teoricamente) il compito di intervistarlo, ma sapevo già che si trattava di una missione impossibile. Le serate pubbliche con il don, infatti, erano diventate veri e propri “spettacoli”, a volte accompagnati da un gruppo musicale di supporto. Anche a Fabbrico c’era un gruppo musicale, che doveva fare qualche intermezzo con pezzi di Fabrizio De Andrè. Riuscì a suonare solo pochi minuti, prima che il don cominciasse a parlare e dopo che ebbe finito. Allo stesso modo, al teorico intervistatore fu possibile soltanto introdurre e concludere l’incontro. In mezzo, due ore di trascinante monologo. Anche quella volta, la serata proseguì a lungo, in casa di un ospitale fabbricese, attorno a un piatto di cappelletti, dei quali Gallo era ghiotto. E anche quella volta, parlando di tante cose, si fece tardissimo prima che il don e il suo fedele autista riprendessero la strada verso Genova.
Infine, l’ultimo incontro. E’ cronaca recente, risale a pochi mesi fa. Gallo tornò a Bagnolo il 19 novembre scorso, invitato dal comitato per i diritti umani. Ci ritrovammo, io e lui, sul palco del Teatro Gonzaga - Ilva Ligabue, insieme Katia Pizzetti e a Vittorio Barbanotti, animatori del comitato e promotori dell’iniziativa. Il don mi sembrò fisicamente più provato, forse già non stava bene, comunque era pur sempre un uomo di 84 anni che non si risparmiava, che girava e si impegnava continuamente. Nonostante ciò, fu il solito un fiume in piena, occupò tutto il tempo e tutto lo spazio a disposizione. Giusto così, la gente era lì per ascoltare lui. Come sempre, finito l’incontro pubblico, facemmo tardi con un gruppo di amici, questa volta al Maki Pub.
Era il periodo delle primarie per l’elezione del candidato premier del centrosinistra. Attorno all'immancabile piatto di cappelletti - citazione d’obbligo per la cuoca di turno, l’assessore comunale Mara Bertoldi - parlammo di politica e di sinistra. “Io andrò a votare per Nichi Vendola – ci disse Gallo – conosco Nichi da tanto tempo, è importante che ottenga un buon consenso perché rappresenta gli ideali e i temi della sinistra”. Gli chiedemmo allora se potevamo inserirlo “ad honorem” nel comitato che anche a Bagnolo si era costituito per sostenere Vendola. “Va bene – rispose – tanto lo sanno tutti come la penso”. Poi via, nel cuore della notte, verso la sua Genova.
Non ci sarà una prossima volta. Nemmeno per quella intervista “vera” che mi prometteva quando mi lamentavo perché, sul palco, era impossibile interrompere i suoi monologhi. “Vieni a trovarmi in comunità – mi rispondeva – così mi fai tutte le domande che vuoi”. In verità, attraverso le sue parole e il suo esempio di vita, Gallo ha già risposto a tutte le domande possibili. Ma sarebbe stata sicuramente un’altra bella occasione per imparare qualcosa da lui. Ho aspettato troppo, colpa mia. Ciao don, grazie per tutto quello che hai fatto. Riposa in pace.

Stefano Morselli

venerdì 24 maggio 2013

Se fossi a Bologna, per un sistema scolastico laico e unitario, al referendum consultivo sosterrei la proposta A

In merito alla nota dei sindaci della provincia di Reggio Emilia, a favore della proposta B nel referendum che si svolgerà a Bologna riguardo i fondi alle scuole paritarie vorrei sottolineare la mia posizione, in quanto assessore alla scuola del comune di Bagnolo in piano.
Il sistema integrato pubblico - privato, in vigore anche nel comune che amministro, è il risultato di una politica più che decennale  sulla base della quale i comuni suppliscono, con fondi propri, ad una inadempienza dello Stato che dovrebbe provvedere ad istituire scuole dell'infanzia su tutto il territorio nazionale.
Si tratta di una politica discutibile  che talora " costringe" le famiglie a rivolgersi a scuole la cui offerta è sicuramente di qualità  ma o più cara, o di tendenza, cioè orientata in senso religioso.
E' del tutto evidente che il referendum di Bologna- consuntivo- ha l'obiettivo non tanto di mettere in mezzo alla strada migliaia di bambini, né tantomeno quello di prendersela con questa o quella scuola,  ma di costringere lo Stato a prendersi le proprie  responsabilità e ad investire i fondi che da anni nega per coprire questo fondamentale segmento del ciclo prescolastico.
Per questa ragione,  pur ritenendo che l'unica politica possibile, nel contesto dato, sia quella del sistema integrato che i comuni si dovrebbero sforzare di governare in modo un po' più coordinato e ordinato sia sul lato delle iscrizioni sia quello della proposta pedagogica complessiva, personalmente sono favorevole alla proposta A la cui affermazione:
  1. costringerebbe lo Stato ad occuparsi nuovamente del segmento 3-6 praticamente abbandonato negli ultimi anni.
  2. alleggerirebbe i bilanci dei comuni che sono costretti a stanziare somme, a volte  considerevoli, per supplire a funzioni proprie dello Stato, il tutto, ovviamente, a fronte di tagli sempre più rilevanti.
  3. riaprirebbe uno spazio di discussione sul tema della laicità dell'istruzione.
Tale tema, completamente espunto dal dibattito pubblico o derubricato a anticlericalismo ideologico , è invece di primaria importanza soprattutto in una società in cui coesistono diverse confessioni religiose alcune delle quali potrebbero, in un futuro molto prossimo, volersi costruire la propria scuola e chiederne il finanziamento in nome della libertà di scelta. A quel punto come potranno le amministrazioni locali arginare l'evidente rischio della piegatura confessionale che potrebbe prendere l'offerta formativa del segmento 3-6? Io credo che, anche per evitare questo, ogni cittadino che abbia a cuore un sistema scolastico laico e unitario, dovrebbe sostenere la proposta A cosa che, se fossi a Bologna, farei e inviterei a fare.

Daniele Ferrari (Vicesindaco Comune di Bagnolo)

sabato 18 maggio 2013

Veltroni e il “Pd delle origini”: a volte ritornano. O almeno ci provano

Pare che il congresso del Pd si farà a ottobre o a novembre. Da qui ad allora, può succedere di tutto, a proposito del Pd ma soprattutto a proposito del governo. Non è quindi saggio azzardare previsioni troppo categoriche. Però, qualche considerazione sul modo con il quale il Pd si sta avviando verso una ipotetica “rifondazione” si può cominciare a fare. La prima è che, senza alcun dubbio, ritorneranno in campo e se la giocheranno da protagonisti tutti i big teoricamente “rottamati”, a partire ovviamente da Veltroni e D’Alema. Basta leggere, anche distrattamente, le cronache politiche di questi giorni, per capire che le grandi manovre sono in corso (anzi, sono probabilmente iniziate già nelle vicende caotiche del dopo-elezioni). Sarà una partita delicata, nella quale le diverse cordate tenteranno di conquistare la guida del partito ma anche di rimettere insieme i cocci in un patchwork che continui, comunque a contenere tutto e il contrario di tutto. Missione difficile, forse impossibile: ma che cosa più può assomigliare a un patchwork di quel genere del mitico “Pd delle origini”? E infatti.
Andiamo con ordine. Al momento, le grandi manovre precongressuali si svolgono dentro una perdurante nebbia di contenuti e dietro una raffica di candidature più o meno plausibili alla segreteria: il reggente pro tempore Epifani, l’europarlamentare Pittella, l’ex plenipotenziario veltroniano Bettini, l’ex giovane dalemiano Cuperlo, l’ex sindaco e ora banchiere Chiamparino, l’ex ministro e neo-iscritto Barca, l’outsider Civati… Ma almeno una cosa si intravede già con sufficiente nitidezza: Veltroni è all’opera per riportare il calendario a sei anni fa, cioè per “rifondare” appunto il Pd delle origini. Quello della proclamata “vocazione maggioritaria” e della praticata rottura a sinistra. Quello del “ma anche”. Quello dei Rutelli, delle Binetti e dei Calearo. Le origini, sì: del successivo disastro.
Come già avvenne a quel tempo, anche se molti fecero finta di non vedere e di non sentire, anche adesso Veltroni spiega le sue opinioni con onesta e apprezzabile chiarezza. Ad esempio, nell’intervista che compare sull’ultimo numero dell’Espresso. Più ampiamente, nel nuovo libro che ha appena scritto e che i giornali stanno ampiamente recensendo, in previsione di una prevedibilmente ampia tournèe di pubbliche presentazioni. Ora, è vero che Veltroni da tempo non ha più gran seguito tra iscritti e simpatizzanti del Pd. Però, intanto, ha già riavviato il tam tam del 33% che il “suo” Pd (pur nettamente sconfitto) ottenne nelle elezioni politiche del 2008: non è escluso che, nella attuale, confusa e disastrata fase, qualcuno si affretti a dimenticare cosa accadde durante e dopo quel 33%.
In ogni caso, a sostenere la linea del ritorno alle origini nella corsa per la leadership del Pd, non sarà Veltroni in prima persona, bensì un nome più “nuovo” e spendibile. Poco probabile Goffredo Bettini, fresco di rientro in politica dopo un ritiro thailandese. Più verosimile Sergio Chiamparino, ex sindaco di Torino, ora presidente dell’ente che controlla il Banco San Paolo, rispuntato all’improvviso nelle settimane scorse – quasi si trattasse di un mini test di popolarità - come possibile candidato premier, o perfino alla presidenza della Repubblica. Soprattutto Chiamparino sta rilasciando interviste abbastanza eloquenti: ricorda di aver sostenuto Matteo Renzi alle ultime primarie, sposa senza indugio le proposte dell’economista Pietro Ichino (già consulente di Renzi, poi traslocato con Monti alle recenti elezioni), mette esplicitamente nel conto la rottura definitiva dell’alleanza con Sel.
Il riferimento a Renzi non sembra casuale. Ci vuole poco per capire che, se anche Renzi decidesse di schierarsi tra i sostenitori di una candidatura Chiamparino (o altra politicamente affine), allora quella cordata diventerebbe assai robusta e competitiva. Fantapolitica? Si vedrà. Nel frattempo, farebbero bene ad alzare le antenne e a darsi una mossa quanti, nel Pd, pensano che tornare alle origini sia una pessima idea. E che abbia invece più senso ricostruire in Italia una sinistra degna di questo nome, anche se – con tutta evidenza – una parte del loro stesso partito marcia in tutt’altra direzione. Meglio allacciare le cinture, perché si preparano ulteriori e robuste perturbazioni.

Stefano Morselli

mercoledì 15 maggio 2013

Contro il razzismo, disarmiamo la cultura (sulle orme di Alex Langer)


L’ondata di razzismo che sta coprendo l’Italia dal giorno della nomina a ministro di Cécile Kyenge ci ricorda che viviamo in un paese che ha subìto oltre un ventennio di vera e propria pedagogia razzista e violenta, deliberatamente fondata sulla costruzione del nemico. Tanto esterno, quanto interno.
La costruzione del nemico esterno, imposto di volta in volta come pretesto per le varie missioni di guerra – antidoto a quella che il generale Mini ha definito“minaccia della pace” seguita al crollo del muro di Berlino – nelle quali è stato coinvolto il nostro paese, in spregio della Costituzione, dal 1991 ad oggi: dall’Iraq, all’Afghanistan, passando per la Somalia, la Serbia, ancora l’Iraq e la Libia.
La costruzione di un nemico interno, indicato di volta in volta come il capro espiatorio rispetto alla crescente e diffusa precarietà sociale ed esistenziale – generata dalle politiche liberiste dedite allo smantellamento progressivo, pezzo dopo pezzo, delle protezioni sociali – sul quale è stata riversata (anche a beceri fini elettorali e di vendita di copie dei giornali) la colpa della perdita della sicurezza: dagli albanesi scesi dalle carrette del mare negli anni ’90 fino ai profughi nord africani della guerra libica, tutta la popolazione migrante in Italia ha visto progressivamente perdere rispetto, diritti, dignità. E subire violenza.
La costruzione delle due minacce, che nel primo caso servono a legittimare risposte di tipo bellico e a giustificare il riarmo militare (fino ai folli cacciabombardieri F-35, con capacità nucleare) e nel secondo caso servono a legittimare risposte di tipo identitario e a giustificare la legislazione razzista (fino all’assurdo reato di clandestinità ed ai lager dei CIE), dal 2001 dopo l’attacco alle “Torri gemelle”, si è sovrapposta in un’unico processo di deumanizzazione e legittimazione della violenza contro lo stesso nemico “alieno”, da combattere sia fuori che dentro i nostri confini. Dilatati e confusi – a questo punto – con i sacri confini dell’Occidente. Ciò è servito – come spiega Chiara Volpato nel suo ottimo lavoro Deumanizzazione. Come si legittima la violenza - “a costruire il consenso alla guerra al terrore, a tollerare le violazioni dei diritti umani, a trascurare le violazioni dei danni collaterali, tra le popolazioni”. Ma anche a costruire il terreno favorevole per il “progrom di Ponticelli” contro i rom, la strage di Castelvolturno, la “caccia ai negri” di Rosarno, la strage dei senegalesi di Firenze…ma anche per l’infame propaganda leghista e per le campagne di stampa contro i migranti (documentate anche dalla prima e unica, a quel che mi risulta, ricerca nazionale su “immigrazione e asilo nei media italiani”, a cura dell’Università di Roma nel 2009), fino alle manifestazioni di questi giorni dei fascisti contro la neo ministro Cécile Kyenge, con il corollario di minacce scritte sulle mura delle città.
C’è bisogno quindi non solo di esprimere solidarietà e incoraggiamento al lavoro della prima ministra italiana di origini congolesi, ma è necessario sempre di più associare all’impegno per il disarmo militare, anche l’impegno per il disarmo culturale, all’interno di un complessivo progetto nonviolento di società. Come per un vero processo di disarmo militare non accade che l’altro disarmi se non si comincia da sè, spingendo così anche l’altro (non più minacciato) a rinunciare a sua volta a qualcosa, anche un vero processo di disarmo culturale – volto a sradicare razzismo, odio e violenza nei confronti di chi è portatore di differenze culturali – deve partire da noi, dalla costruzione della nostra disponibilità a convivere con lui. Con i molteplici e differenti “lui”. Non è sufficiente quindi promuovere il tema dell’integrazione, del cui dicastero la signora Kyenge è titolare, perché integrare vuol dire letteralmente “portare dentro” e integrazione confina semanticamente con assimilazione, con la richiesta a tutti gli altri di disarmare culturalmente mentre noi manteniamo intatte le nostre batterie identitarie.
Penso si tratti invece di promuovere processi di costruzione di  vera convivenza muovendoci sulle orme di Alex Langer che, in anticipo sui nostri tempi – ed a partire dalla tragedia balcanica – aveva perfettamente compreso la necessità di agire contemporaneamente tanto sul piano del disarmo militare quanto su quello culturale (oltre che ecologico). Nel suo “Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica” del 1994 scriveva: “Per la prima volta nella storia si può – forse – scegliere consapevolmente di affrontare e risolvere in modo pacifico spostamenti così numerosi di persone, comunità, popoli, anche se alla loro origine sta di solito la violenza (miseria, sfruttamento, degrado ambientale, guerra, persecuzioni…). Ma non bastano retorica e volontarismo dichiarato: se si vuole veramente costruire la compresenza tra diversi sullo stesso territorio, occorre sviluppare la complessa arte della convivenza.” E’certo la cosa più difficile da fare, ma ad essa ormai non è più possibile sfuggire.
Pasquale Pugliese

sabato 11 maggio 2013

Il saluto del Movimento Nonviolento

Vi ringraziamo per l'invito a partecipare all'incontro “La cosa giusta” dell'11 maggio a Roma.
Il momento politico, difficile e incerto per tutti, richiede che le forze politiche responsabili puntino ora sulla parte costruttiva, perché già troppi privilegiano solo la parte distruttiva.
Dunque è importante capire quale sia oggi “la cosa giusta” da fare: noi pensiamo che sia la scelta nonviolenta.
Nonviolenza negli obiettivi politici (opposizione integrale alla guerra e alla sua preparazione, dunque riduzione drastica delle spese militari a vantaggio di quelle sociali e solidali), ma anche come paradigma per ripensare la politica e la forma partito.
Alcune cose giuste sono già state fatta. Una, a cui abbiamo cercato di dare il nostro contributo, è la costituzione dell'intergruppo parlamentare per il disarmo, che è il modo migliore per trovare la convergenza tra diverse forze politiche su di un valore superiore, che è il ripudio della guerra.
Se ognuno dev'essere il cambiamento che vorrebbe vedere nel mondo, anche i partiti devono modificarsi per iniziare a migliorare le istituzioni, a partire dal ritrovare il legame tra etica e politica che si è spezzato.
La nonviolenza è un bene da raggiungere ma anche un metodo di lavoro che prefigura il fine.
Il Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini nel 1961, ha sempre cercato di portare la propria “aggiunta nonviolenta” all'idea di sinistra, cioè un incremento di valori più che la negazione di percorsi e storie altrui. L'abbiamo fatto altre volte nel passato, nel rispetto della nostra autonomia ed indipendenza da ogni forza partitica, lo facciamo anche oggi con la disponibilità ad aprire intelocuzioni con chiunque sia alla ricerca del superamento della violenza.
Un prossimo appuntamento comune per chi vede nella nonviolenza il varco attuale della storia, è per il 2 giugno. Ci sarà una scelta da fare: festeggiare la Repubblica riconoscendosi in una parata militare, oppure partecipare alle celebrazioni nonviolente e disarmate che stiamo predisponendo, dove a sfilare idealmente saranno le forze vive della Repubblica: le categorie delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Invitiamo tutti coloro che vorranno fare la cosa giusta, dai deputati ai singoli militanti, a partecipare alle manifestazioni del 2 giugno per la pace ed il disarmo.

Mao Valpiana
presidente del Movimento Nonviolento

11 maggio 2013

giovedì 9 maggio 2013

Contro il rischio di stagnazione rilanciare il centrosinistra con la partecipazione

La nostra città, assieme a tutto il Paese, vive da alcuni anni una profonda crisi economica e sociale che non accenna a placarsi a causa delle politiche di ferrea austerità inflitte dall’Europa e dai governi nazionali. La disoccupazione, specie quella giovanile, rappresenta anche a Reggio Emilia il male sociale del nostro tempo i cui esiti di lungo periodo, nella dimensione politica così come antropologica, restano del tutto ignoti. Il rischio, come accade oggi in numerose comunità dell’Europa, è che la frustrazione si trasformi in rancore e disaffezione democratica. Il livello di coesione sociale della nostra città è ancora significativamente elevato rispetto al quadro italiano, ma il segno del declino è visibile anche qui. Questo condizione sociale e culturale può essere spezzata solo da politiche economiche espansive volte alla creazione di buon lavoro; questo sarà il metro del nostro giudizio nei confronti del governo Letta. L’agenda proposta da quest’ultimo al Parlamento, così come la natura politica del governo, lasciano tuttavia poco spazio all’ottimismo.

In questo quadro, l’imminente decadenza del Sindaco Graziano Delrio a causa del suo nuovo incarico di Ministro rappresenta un elemento di debolezza per la città oltre che una situazione inedita. Non è possibile, per la stessa esistenza del centrosinistra quale soggetto oltre che spazio politico, rimanere prigionieri di un orizzonte temporale coincidente con la fine dell’attuale consigliatura. E’ necessario ripartire da una proposta politica capace di ridare senso allo stare insieme, non tanto per l’oggi ma per il domani. La grande maggioranza degli elettori e dei militanti del centrosinistra, a cominciare da quelli del Partito Democratico, vivono un forte sentimento di rassegnazione e di spaesamento quale conseguenza dell’innaturale e deleteria alleanza tra PD e PdL. Si aspettavano il governo del cambiamento ed è arrivato, per vie dolorose come il sacrificio di Romano Prodi, l’abbraccio con Silvio Berlusconi. E’ nostro compito contrastare questa condizione sociale e soggettiva - schiacciata sul presente e per questo avvilita – aprendo nuovi spazi politici e invitando la città a respirare a pieni polmoni.

Serpeggia un malcontento diffuso tra ampi strati della popolazione, a cominciare dai corpi intermedi che da sempre garantiscono rappresentanza sociale, partecipazione democratica e coesione. Allo stesso modo, sono sempre più numerosi singoli cittadini, di ogni età ed estrazione sociale, che cercano uno spazio pubblico e politico dove trovare non solo ascolto ma anche riconoscimento delle proprie competenze e della propria soggettività. Il declino delle grandi organizzazioni di massa ha inevitabilmente coinciso con l’aprirsi di una nuova epoca in cui la rappresentazione immediata di sé e dei propri bisogni ha eroso quote significative della rappresentanza politica e sociale tradizionale. Questa è la ragione per la quale dobbiamo innovare le forme del nostro fare politica oltre che i contenuti. L’agenda del cambiamento, anche a Reggio Emilia, sarà tale solo se riuscirà a coinvolgere direttamente cittadini e associazioni.

Partendo da questo scenario è evidente la distanza che si è venuta a determinare tra l’azione di governo locale e le istanze sociali diffuse. L’indubbio indebolimento della Giunta comunale, frutto della decadenza del Sindaco e dell’assessore alla mobilità, non faciliterà un nuovo orientamento politico e amministrativo capace di cogliere la volontà di cambiamento che anche a Reggio Emilia è stata espressa con il voto delle elezioni politiche di febbraio. Per questa ragione crediamo che un rafforzamento politico della Giunta, a cominciare dall’ingresso di una nuova generazione di amministratori, sarebbe stato doveroso al fine di rilanciare un progetto politico dal respiro lungo. L’immobilismo e l’autosufficienza manifestati dal PD ha invece impedito che si aprisse una nuova stagione politica e amministrativa. Siamo convinti che questa miopia finirà per avere conseguenze negative, in termini amministrativi e programmatici, anche sugli elementi di necessaria continuità che dovranno essere attinti dall’amministrazione Delrio.
Sinistra Ecologia e Libertà intende lavorare, anche localmente, all’unità delle forze politiche progressiste che si riconoscono nei principi e nei valori del socialismo europeo, primo fra tutti l’impegno a costruire una società più giusta ed egualitaria. Allo stesso tempo avvertiamo l’esigenza di contribuire a rianimare l’intera coalizione di centrosinistra che non può rimanere prigioniera, per lunghi e difficili mesi, delle ambasce del Partito Democratico.
A livello locale per i temi principali su cui concentrare l’azione di governo, noi indichiamo: la mobilità sostenibile, il riciclo dei rifiuti, il rafforzamento della coesione sociale, ed il lavoro (che vive la crisi più grave degli ultimi decenni per disoccupazione), così come del sistema della piccola impresa manifatturiera-commerciale e della cooperazione che richiedere una iniziativa di regia dell’amministrazione per la concertazione di azioni di rilancio degli investimenti su settori innovativi ecc.

Ma la coalizione di centrosinistra necessita di attingere risorse, idee, programmi ed energie dalla società civile, la cui espressione autentica non può essere confinata nei recinti dell’antipolitica, del qualunquismo o della xenofobia. Per questa ragione crediamo che la partecipazione della società civile, soprattutto alla definizione dei programmi politici e amministrativi, rappresenti un elemento irrinunciabile.
Crediamo che l’interesse della collettività e della città venga prima di qualsivoglia ragione di partito e quindi chiediamo fin d’ora al Partito Democratico di pronunciarsi chiaramente in merito ai seguenti punti:
  • avviare entro l’estate un percorso aperto alle forze progressiste, alla società civile e alla cittadinanza finalizzato alla costruzione partecipata del programma di governo del mandato amministrativo 2014-2019; programma che dovrà comunque essere sottoposto ad una consultazione popolare con modalità e strumenti appropriati;
  • avviare immediatamente un confronto politico, a livello cittadino e provinciale, tra Sel e PD al fine di escludere ogni proiezione locale dell’accordo di governo siglato tra PD-PdL-Scelta Civica a livello nazionale;
  • garantire che i prossimi candidati Sindaci del centrosinistra, a livello provinciale, saranno scelti tramite primarie aperte capaci di garantire la massima partecipazione dei singoli cittadini che si dichiareranno elettori del centrosinistra.
Assemblea provinciale “Sinistra Ecologia Libertà” Reggio Emilia 7-5-2013

lunedì 6 maggio 2013

Fuoco alla Siria

Ribelli, gas nervino, Israele, regime di al Assad, i buoni, i cattivi e i bombardamenti sui siti militari... 
Manca solo Iran un po' più provocatore, e sarebbe guerra.
Tutte balle.
Balle come quelle raccontate sulla Libia.


La rivoluzione era nata nella primavera araba, spontanea e non armata.

Poi in tanti hanno capito che poteva da l' iniziare una "finta" guerra civile, per cambiare le carte in gioco. Per subentrare al regime nella spartizione delle risorse siriane.
Ribelli? Sì ci sono, ma sono truppe mercenarie che portano morte e terrore. Non è una guerra civile, non ci sono partigiani.
E per favore, diciamolo in giro.
Truppe assoldate da altri Stati o altri poteri forti. E la gente muore, scappa, grida che non c'entrano nulla con l'odio. Ma noi non li ascoltiamo.
Per noi occidentali è troppo faticoso ammettere che un tale spargimento di sangue sia manovrato dall'esterno, quindi anche un po' da noi, quantomeno permesso dal nostro silenzio assenso.
Per noi è più facile pensare che ci sono dei cattivi e dei buoni. Magari cattivo Assad ed anche Israele..
Ma noi siamo tra i buoni, ovviamente.
E invece no.

Non lo siamo nella misura in cui asseconderemo un intervento militare esterno, senza spendere un euro per fare verità. Per dare il nome giusto alle cose. Per gridare chi è che manovra e foraggia i criminali che terrorizzano la popolazione. Per dire che le bombe di Israele non colpiscono i siti militari, ma tutto il quartiere che c'è intorno, colpiscono luoghi di aggregazione, di solidarietà e riconciliazione. Anche le nostre bombe in Libia hanno fatto così.
Quindi diciamocelo, anche noi italiani siamo interessati nella spartizione del bottino.
Esattamente come è successo in Libia.

Che Dio abbia pietà di noi.  Allah irhamna.

Laura Vezzosi

Un suggerimento di lettura al nuovo ministro della Difesa


In un’intervista su l’Unità del primo maggio (pensa, a volte, gli scherzi del calendario…) il neo ministro della Difesa Mario Mauro annuncia le linee guida che intende dare al proprio ministero. Senza sentire minimamente il dovere di spiegare da quali tremende minacce militari sia oggi necessario difendersi a giustificazione di quelle che anche l’inchiesta de l’Espresso di questa settimana definisce “le spese folli della difesa” , il ministro fa immediatamente suo il solito mantra della Difesa che “serve alla pace ed alla convivenza civile, per questo deve essere sempre al top delle prestazioni”, che – tradotto – significa che non si possono tagliare in alcun modo le spese militari. E a domanda specifica sulla possibilità di rivedere almeno l’acquisto dei caccia F-35 (in campagna elettorale ipocritamente disconosciuti da tutti i leader politici) dopo aver premesso che “investire vent’anni in un progetto e poi lasciarlo perdere tutto d’un colpo non ha senso”, riconosce che “bisogna entrare nel merito.”
Per entrare nel merito sia della questione specifica dei cacciabombardieri che di quella più generale della Difesa e delle sue spese folli, ci permettiamo di suggerire al ministro la lettura di un ottimo libro curato dai giornalisti Duccio Fracchini, Michele Sasso e Francesco Vignarca (quest’ultimo coordinatore della Rete Italiana Disarmo) Armi, un affare di Stato, uscito lo scorso settembre per Chiarelettere in collaborazione con Altreconomia. E’ un volume che affronta in maniera approfondita il tema del rapporto tra industria della armi, spese militari degli stati e guerre. Disvela in modo estremamente documentato le mistificazioni e gli interessi trasversali (legali e no) che hanno creato e sostengono il tabù dell’intangibiltà della spesa per gli armamenti, sia sul piano globale che nazionale. Senza svelare alcun mistero che non fosse già conosciuto a tutti gli “addetti ai lavori” – fin da quando il generale Eisenhower, già due volte presidente degli USA, nel 1961, alla fine del suo secondo mandato, metteva in guardia il successore J.F.Kennedy dall’”influenza indiscriminata esercitata dal complesso militare-industriale”- gli autori rimettono al loro posto il rapporto di causa ed effetto tra multinazionali delle armi, bilanci degli Stato e missioni di guerra.
Non a caso il volume di apre con due illuminanti casi di studio su come funziona il sistema: Grecia e Libia. In Grecia, per esempio, i governi europei (Germania e Francia su tutti) che chiedono pesantissimi tagli nel bilancio dello Stato ellenico per poter continuare ad usufruire dei prestiti sono gli stessi che hanno voluto “speciali garanzie sui contratti – già stipulati, o ancora da firmare – relativi alle forniture belliche”, al punto che – mentre l’Unicef denuncia il grave problema di malnutrizione dei bambini – il martoriato popolo greco si trova con un bilancio di spese militari pari al 3% del proprio PIL, incidenza seconda solo a quello degli USA. E la Grecia continua ad essere il principale importatore (circa il 15%) delle armi tedesche…
Attraversando i capitoli che raccontano i dettagli del “grande affare delle armi”, si passa dal colosso italiano di Finmeccanica al rapporto servizievole tra politica e mercato, dall’import/export di un settore in inarrestabile crescita agli acquisti pubblici dei grandi sitemi d’arma (per un costo complessivo, “basato sulle stime della Difesa, che quasi mai corrispondono al costo reale a consuntivo dei programmi”, di 49 miliardi di euro), fino all’F-35 “il caccia dello spreco”. Entrando nel merito del quale – proprio come intende fare il Ministro – gli autori raccontano le vicende che hanno portato il nostro Paese ad aderire al più grande programma d’armamento della storia, “simbolo perfetto dei meccanismi e degli sprechi connaturati al mondo degli armamenti e delle spese militari”. Se ne ricostruiscono le finalità politiche e militari, anche nucleari, statunitensi (ricordate nei giorni scorsi anche da un articolo di the guardian) ma incompatibili con la nostra Costituzione, ma anche le molte voci critiche provenienti da ambienti militari USA, l’esplosione dei costi, la bufala delle penali e l’inganno delle ricadute occupazionali.
Insomma, si trovano in questo pregevole lavoro molte informazioni che servono ad un neo ministro – finalmente civile! – che voglia svolgere il suo compito a difesa della Patria – e non delle lobby delle armi – senza pregiudizi ideologici e nel rispetto della Costituzione italiana, sulla quale ha giurato pochi giorni fa. Ma anche a difesa dei conti pubblici, in questa epoca di grave crisi economica nazionale e internazionale.
Il volume si conclude con un capitolo sulla convenienza economica del disarmo, nel quale si cita il Global peace index 2012dal quale si evince che se si fossero ridotte globalmente “anche solo di un quarto il peso delle scelte armate si sarebbero risparmiati oltre 2250 miliardi di dollari, una cifra capace da sola di coprire il Fondo di stabilità europeo stanziato per contrastare la crisi dei debiti dell’Eurozona e, contemporaneamente, di garantire il raggiungimento degli “obiettivi di sviluppo del millennio” elaborati dalle Nazioni Unite per combattere la povertà nel mondo.” Non farlo è un crimine contro l’umanità, quanto le guerre che invece vengono alimentate.
Pasquale Pugliese

LA COSA GIUSTA. 11 Maggio a Roma

Partenza da Reggio Emilia ore 8,00 parcheggio ex Foro Boario. 
Per prenotazioni: Antonella Festa 3333704182  Michele Bonforte 3356600547 

domenica 5 maggio 2013

Breve storia dell'Ici e dell'Imu. In attesa della Vppic

C'era una volta il governo Prodi, che aveva abolito l'Ici sulla prima casa per la metà dei contribuenti, quella con il reddito più basso. Poi venne il Banana, che abolì l'Ici per tutti, straricchi compresi, creando un grosso buco nei bilanci dei comuni, ai quali l'imposta era destinata. Accadde poi che, con arguta manovra, l'imposta venne ripristinata dal Banana medesimo - per tutti, con il nome di Imu - e resa operativa dal governo Monti, con il consenso dei partiti che lo sostenevano, Banana compreso. 
Nella recente campagna elettorale, con lucida e coerente lungimiranza, il Banana lanciò l'idea di ri-abolire l'Imu per tutti e, anzi, di restituire a tutti quella già versata per il 2012. Ora siamo al governo della larghe (fra)intese e si discute animatamente se sospendere la prima rata dell'Imu a giugno, in attesa di rimodularne l'impostazione (tesi Pd), oppure abolirla del tutto e per tutti, con tanto di restituzione della quota 2012 (tesi Banana). Nel caso prevalesse la tesi Pd, il Banana minaccia di abolire il governo delle larghe (fra)intese e restituire Letta (quello del Pd) ad altre e meno impegnative mansioni. Nel caso prevalesse la tesi Banana, tra un po' ci ritroveremo presumibilmente di fronte alla necessità di ri-ripristinare una imposta analoga, magari denominata Vppic (vi pigliamo per il culo). In modo che nella prossima campagna elettorale, il Banana possa genialmente proporre di ri-riabolirla. Sono soddisfazioni. 

Stefano Morselli

sabato 4 maggio 2013

Israele: Negoziati di pace

Giunge, in questi giorni, la nuova proposta di Beniamin Netanyahu per una ripresa del dialogo sui negoziati di pace. La proposta è alquanto strana, in quanto si propone insieme alla decisione di continuare la realizzazione di insediamenti in territorio arabo. È un po’ come tentare di mettere insieme l’acqua e il fuoco. Chi vive in Palestina-Israele, specialmente nei territori occupati, sa benissimo che non è possibile un accordo sui due stati senza la cessazione degli insediamenti, ma anche senza un ritiro unilaterale d’Israele dal West Bank, i territori occupati. Tentativi come questi, con inviati internazionali per sostenere i colloqui, sono in atto da decenni senza alcun frutto concreto: un tragico balletto che si ripete da decenni. Chi vive in Israele, come pure chi vive nei territori occupati, lo sa benissimo. La strategia delle varie amministrazioni israeliane che si sono succedute dal 1948 ad oggi, esclusa forse l’amministrazione di Moshe Sharett (1953-1955), è molto evidente dalla cartina, che visualizza il territorio in mano all’autorità palestinese nei vari periodi dal 1948 ad oggi.
 
Tutto questo porta le rispettive parti che sperano nella pace, israelana e palestinese, solamente alla costatazione di uno status quo che dura ormai da troppo tempo. La pace si farà con uomini nuovi, ma solo se vi sarà il ritiro unilaterale israeliano dai territori occupati. Il presidente americano Barack Obama sembra saperlo benissimo, si è infatti rifiutato di parlare alla Knesset (il parlamento israeliano) mentre ha voluto parlare ai giovani israeliani, ai quali ha chiesto di vedere il futuro con “gli occhi di una bimba di Gaza”.

Baruch ha Sofèr