di Algo Ferrari
Per affrontare il tema dell'insicurezza dell'individuo in relazione al lavoro occorre anzitutto considerare la grave situazione socio-economica che deriva dall'epocale crisi che stiamo attraversando in Europa e, nello specifico, in Italia oggi. Continuano ad aumentare drammaticamente i poveri: il rischio di povertà ed esclusione sociale è sempre più alto: una persona su tre. Secondo i più recenti dati (Istat – Inps e Ministero del Lavoro) solo il 19% dei nuovi contratti di lavoro è stabile. La disoccupazione e la precarietà, sempre crescenti, colpiscono soprattutto i giovani e le donne. I giovani italiani riprendono ad emigrare, tanto che il numero degli immigrati ha superato nell'ultimo anno il numero degli immigrati. Una emigrazione composta per lo più da diplomati e laureati. Il tasso di disoccupazione colpisce, infatti, anzitutto i laureati e in misura minore i diplomati, rispetto a chi non ha titoli scolastici superiori. Aumenta ancora la diseguaglianza: il 10% dei cittadini italiani possiede il 50% della ricchezza. Un pensionato su due ha un reddito sotto i mille euro. L'insicurezza, in questo contesto, da fenomeno individuale acquisisce chiaramente l'aspetto di un fenomeno collettivo, di massa, che può aprire le porte, come già visto tante volte nella storia, all'emergere di forme di reazione estreme e pericolose per la società. intera.
Ciò che, a mio parere, deve tuttavia preoccupare maggiormente è la situazione nella quale si trovano oggi i giovani italiani, i quali rappresentano, in termini molto concreti, il futuro del nostro paese.
Generazione perduta?
Attraverso il concetto di blaming, l’antropologa culturale Mary Douglas, definisce la dinamica attraverso la quale una società, in un continuo processo di riorganizzazione del proprio ordine, attribuisce colpe e responsabilità, con particolare riferimento a gruppi o categorie. Blaming , nella sua specifica accezione, significa, semplicemente, incolpare gli uni per discolpare gli altri. La Douglas pone al centro della sua teoria le dimensioni del potere, del controllo e del consenso, quali elementi fondamentali dei processi socio-culturali che conducono all’emarginazione o alla colpevolizzazione dei gruppi socialmente più vulnerabili o, in particolari condizioni, anche di gruppi ben integrati e consolidati.
I giovani, oggi, rappresentano molto bene il ruolo che la Douglas assegna alle vittime nei processi di blaming. La classe dirigente italiana, infatti, si sta spingendo sempre più avanti nel porre esplicitamente i giovani sul banco degli accusati.
Iniziò qualche anno fa l’ex ministro (di un governo c.d. di centro-sinistra, si badi bene) Padoa Schioppa, definendo i giovani che vivevano ancora con i genitori bamboccioni. Renato Brunetta, ministro del successivo governo (di centro-destra stavolta), invitò invece un gruppo di giovani neo-laureati, in cerca di prima occupazione, ad andare nei mercati a scaricare cassette. Ad altri, si rivolse con le seguenti affermazioni: «Ancora non lavorate! Che poveri disgraziati!», «Siete Precari! Semplicemente l’Italia peggiore! ». Il governo Monti (un governo di professori c.d. bocconiani!) si è poi contraddistinto per le affermazioni di diversi suoi componenti. Il ministro, prof.ssa Cancellieri, ha sostenuto che se i giovani non trovano lavoro è perché lo cercano accanto a mammà. «Non siete ancora laureati? Ma quanto siete sfigati! » ha affermato poi il viceministro dello stesso governo, prof. Martone. «Cercate un posto fisso? Ma che monotonia! » ha detto il Presidente del Consiglio stesso, definendo per di più “generazione perduta”, la generazione di chi è compreso tra i 30 e i 40 anni. E’ arrivata infine il ministro del lavoro, la prof.ssa Elsa Fornero ad accendere definitivamente la protesta nelle piazze degli studenti accusando i giovani di essere troppo “choosy”(schizzinosi).
La realtà è invece molto diversa da come viene rappresentata da una classe dirigente composta da notabili che ormai da troppi anni hanno perso il contatto vero con il popolo e con i giovani. Esiste, infatti, una maggioranza di giovani italiani di cui andare fieri, che vogliono lavorare e che spendono tutte le loro energie per mantenersi in studi e in attività di formazione. Altro che schizzinosi! Il 71% dei giovani “under 35” è disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, purché remunerato, mentre solo il 20% preferisce attendere di trovare il lavoro che fa per lui (fonte Cisl).
In una situazione nella quale la classe privilegiata che governa il paese stigmatizza i giovani come “bamboccioni” e “sfigati”, e che definendo “perduta” una generazione, ne ha già sentenziato la morte civile, si cela un’evidente applicazione della strategia di blaming prima richiamata. Mettere sul banco degli accusati i giovani serve in realtà a coprire le gravi responsabilità di un’intera classe dirigente che prima ha contributo a determinare la crisi e ora non sa come fare ad affrontare le varie emergenze sociali che chiedono interventi mirati e competenti, disoccupazione in primis.
Emergenza disoccupazione
Mentre nell’Eurozona (area dei 17 paesi che adottano l’Euro) la disoccupazione è salita (a Settembre 2012) all’11,6 % (dal 10,3 % di un anno fa), in tutti i 27 paesi dell’Unione ha raggiunto quota 10,6 % rispetto al 9,8% dell’anno precedente. Complessivamente, in termini assoluti, in Europa “l’esercito di riserva” ha raggiunto la quota di 25,751 milioni di persone, di cui solo 18,49 nell’Eurozona (fonte Eurostat)
In Italia il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 10,8% (fonte Istat). Peggio dell’Italia vi sono l’Irlanda (15,1 %), gli altri paesi del Sud Europa (Spagna 25,8%, Grecia 25,1% e Portogallo 15,7%) e quelli dell’Est Europa (Lettonia 15,9%, Slovacchia 13,9%, Bulgaria 12,4% e Lituania 12,9%). Nettamente meglio i paesi del Centro e Nord Europa (esempio: Germania e Olanda 5,4%). Da notare che in Italia a fronte di quasi 23 milioni di occupati (56,9 % della popolazione attiva) sono 2,8 milioni i disoccupati (ben 554.000 persone in più in un solo anno).
Per l’Italia, relativamente alla disoccupazione, è opportuno fornire alcuni dati supplementari:
- Comprendendo nel tasso di disoccupazione anche i c.d. scoraggiati (quelli che, demotivati, non cercano più lavoro – soprattutto donne), si raggiunge la quota del 12,5% (fonte Bce)
- Nel novero ufficiale andrebbero inseriti anche i cosiddetti Neet (not in emplyement, education and training) ovvero i giovani che non studiano, non cercano lavoro e non si formano (nuovo e inquietante fenomeno sociale – in Italia sono stimati circa 2 milioni).
- I tanti studenti fuori corso (in una situazione di parcheggio – non a caso in Italia ci si laurea nettamente più tardi che in altri paesi)
- I tanti precari in una situazione di assoluta mancanza di prospettive di un contratto a tempo indeterminato (comprendendo tra loro anche le false Partite Iva).
- I lavoratori e le lavoratrici in mobilità o in cassa integrazione in attesa di definitivo licenziamento.
Si stima, complessivamente, una platea di circa 8 milioni di italiani senza lavoro o che rischia seriamente di perderlo.
Se però guardiamo alla disoccupazione giovanile il quadro si fa sempre più drammatico. Nel 2012, tra gli under 25 (tra i 19 e i 25) il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 23,3 % in Europa (contro il 21% dell’anno scorso).
L’Italia si pone tra i paesi con una disoccupazione giovanile tra le più alte nell’Eurozona, con il 35,1 %, al pari del Portogallo. I paesi con la disoccupazione giovanile più alta sono la Spagna (54,2%) e la Grecia (55,6%). Non ci sono confronti con i paesi del Centro e Nord Europa dove il tasso non supera mai la doppia cifra (ad esempio in Germania e Olanda si arriva al 5,4% - la stessa percentuale delle altre classi di età).
I giovani senza lavoro in Italia raggiungono il numero di 2,8 milioni (fonte Istat) e le previsioni per il prossimo anno sono nere; si prevedono altri 500.000 disoccupati in più tra i 19 e i 25 anni.
Ma chi sono esattamente i neet, di cui si è già accennato. Sono stati definiti in molti modi , tra i quali scoraggiati (Banca d’Italia) e inattivi (Svimez). Neet è invece un termine coniato nel Regno Unito per definire i giovani compresi in età tra i 15 e i 29 anni che non seguono alcun percorso formale di istruzione o di formazione e che sono senza lavoro, né lo cercano. In Italia sono circa 2,3 milioni, il 23,4% dei giovani nella stessa fascia d’età (fonte Banca d’Italia e Ministero del Lavoro). Uno dei tassi più alti in Europa. Il fenomeno dei neet lascia abbastanza sgomenti e costituisce un indicatore chiaro del forte malessere sociale che la crisi ha determinato soprattutto tra la popolazione giovanile.
L’identikit del neet è quello di un giovane che vive con in genitori, dispone, ovviamente, di molto tempo libero, che solitamente spreca nel dormire, nel mangiare, nel lavarsi e nel guardare la televisione. Inoltre, quasi sempre, fuma e beve molto. Sarebbe tuttavia sbagliato stigmatizzare questi giovani, come invece accade nel sociale, come fannulloni, scansafatiche o bamboccioni, perché in realtà la loro inattività deriva da percorsi progressivi di scoraggiamento e di marginalizzazione, causati da un insieme di fattori di rischio (problemi di salute, di povertà, basse qualifiche o inadeguate o semplice mancanza di opportunità). Questa generazione rappresenta una vera e propria bomba sociale ad orologeria. Cosa faranno quando non potranno più contare sul sostentamento familiare? In quali modi se ne farà carico la collettività? La realtà è che la famiglia oggi è lasciata sempre più sola nel supplire le carenze di un sistema di welfare ormai allo sfascio.
Al di là dei neet, si accentua anno dopo anno la permanenza dei giovani italiani nelle famiglie di origine. Più del 31% degli italiani maggiorenni abita con almeno un genitore, tra i 18-29enni coabita con i genitori il 60,7% e tra i 30-45enni il 28% (fonte Censis). La crisi economica ha accentuato questo fenomeno, anche negli altri paesi europei , ma non come in Italia, che resta il paese dove i giovani più faticano a distaccarsi dai genitori: in media 28 anni. Indubbiamente questo ritardo deriva anche da una componente culturale, Il famigerato mammismo italico, ma oggi è certamente prevalente la componente strutturale, data dalla precarietà, dai bassi salari, dal costo della casa e dei servizi sociali. Tant’è che la famiglia rimane l’unica forma di welfare su cui contare, in un contesto intergenerazionale. Ma fino a quando?
Le diverse facce della precarietà
La flessibilità dovrebbe, secondo le teorie di tanti economisti, rappresentare una forma di impiego non stabile, ma in grado di offrire anche più opportunità ai giovani in un economia di libero mercato. In realtà, da ormai molti anni, il significato del termine flessibilità si è sovrapposto con quello di precarietà.
Il concetto di flessibilità fu introdotto ufficialmente in Italia nel 1997 con la Legge Treu, che prende il nome dal suo primo estensore, del 1997, e successivamente dalla Legge n. 30 del 2003 (Legge Biagi), che ha introdotto ben 57 tipologie contrattuali diverse (e precarie). Si è così creata, di fatto, una crescente deregolamentazione del lavoro, senza che sia stata prevista alcuna tutela per i lavoratori che, in questo modo, non potevano più lavorare con continuità. Il contratto a tempo indeterminato, gradualmente, sta per essere soppiantato da un ginepraio di contratti atipici (contratti a collaborazione, a chiamata, di somministrazione, a progetto ecc … ecc … ) i quali oggi rappresentano, drammaticamente, la normalità.
Occorre considerare anche che tutti quei lavoratori che protrarranno la loro situazione di precarietà, potranno aver diritto ad una pensione di vecchiaia, non prima di un’età di circa 67 anni, posto che riescano a lavorare fino a quell’età, non superiore ai 600/700 € il mese, date le retribuzioni medie attuali.
Gli stagisti o tirocinanti rappresentano un’altra ulteriore faccia della precarietà. Secondo i dati di Unioncamere sono oltre 300.000 i giovani in Italia che ogni anno fanno stage nelle imprese private. Lo stage dovrebbe essere un’opportunità formativa, ma raramente è così. In realtà è solamente un modo, per molte aziende, di avere a disposizione personale senza tutela alcuna e senza stipendio. Da usare per un certo periodo e poi sostituire con altri stagisti. Infatti, solo al 12% di loro viene proposto un contratto di assunzione una volta concluso il periodo di formazione (fonte Unioncamere).
Quando un giovane, in modo quasi miracolistico, riesce ad ottenere un impiego, è quasi sempre precario o, come eufemisticamente viene detto, flessibile, nel 80% dei casi.
Si presume che i precari in Italia siano circa 4 milioni, di cui 1,4 milioni dipendenti sia del settore privato sia della Pubblica Amministrazione, 2,5 milioni con contratto di somministrazione (gli ex interinali), 400.000 le false Partite Iva.
Secondo “Data giovani”, tra gli under 35, i precari sono raddoppiati in 8 anni, passando dal 20% del 2004 al 39% del 2011. Nel biennio 2009-201° oltre il 76% della assunzioni è stata a tempo determinato (tre su quattro sono contratti precari). Si pensi anche che, mentre nel 2001 i contratti a termine ammontavano complessivamente al 9,6% del totale, nel 2011 sono divenuti il 50%. Mi pare chiaro quale sia il trend e il tipo di curva del diagramma.
Le conseguenze a livello economico e sociale
Secondo i cultori più nobili della c.d. flex - economy una completa libertà da parte delle imprese nella gestione delle assunzioni e dei licenziamenti del personale avrebbe prodotto più produttività, più mobilità e più occupazione, soprattutto giovanile. Vediamo oggi che la situazione produttiva e occupazionale in Italia dimostri quanto tali teorie fossero sbagliate e infondate da un punto di vista della scienza economica.
Vi sono autorevoli economisti, spesso trascurati dai maggior mass-media, che sostengono invece (e giustamente) che la flessibilità, quando si trasforma in precarietà, sarebbe la principale causa dei bassi salari, dei bassi consumi e della bassa occupazione. Nello stesso tempo disincentiverebbe l’innovazione tecnologica, la ricerca, il risparmio.
I giovani, parcheggiati in un eterno limbo, tra lavoro e non lavoro, si trovano costretti a subire qualsiasi ricatto pur di vedersi rinnovato il contratto, spesso in uno stato di discriminazione e di sudditanza rispetto ai colleghi assunti a tempo indeterminato. Sono costretti molto spesso a periodi di non lavoro fra un contratto e l’altro, senza alcuna certezza di reddito costante nel tempo. Anche la formazione professionale continua non può più essere garantita. Pur di lavorare, sono frequentemente costretti ad accettare qualsiasi lavoro senza alcuna continuità di esperienza professionale.
E’ chiaro che in queste condizioni, per i giovani, diviene sempre più difficile rendersi indipendenti dalla famiglia di origine, comprare un appartamento o anche solo pagare un affitto, per non parlare poi di sposarsi o fare figli! Non a caso l’Italia con una media di 1,4 figli a donna, è tra i paesi al mondo col più basso indice di natalità (nonostante la presenza di tanti immigrati aventi una propensione a fare figli ben maggiore degli italiani).
Possibili proposte per uscire dalla precarietà
Cosa si può fare per uscire dalla precarietà? Cosa si può fare per ridare una speranza di futuro ai giovani? Elenco in modo schematico alcune principali, e possibili, proposte da approfondire e sulle quali lavorare:
- Drastica riduzione delle tipologie di lavoro atipico Ridare centralità al contratto a tempo indeterminato, incentivando economicamente le imprese alla trasformazione del rapporto di lavoro da precario a stabile.
- Più scuola e università (collegare maggiormente i percorsi scolastici alle esigenze del lavoro, investire sull’innovazione)
- Più ricerca (l’Italia si colloca al 15° posto in Europa per investimenti e sviluppo)
- Piano casa per i giovani (con mutui agevolati e garanzie alle banche)
- Reddito sociale garantito (a tutti coloro che si trovano in stato di disoccupazione, in attesa di iniziare una nuova occupazione)
- Piano previdenziale e assicurativo pubblico che comprenda i periodi di non lavoro per i lavoratori precari.
- Piano per il lavoro (eco- sostenibile)