venerdì 18 luglio 2014

A proposito di 194 - opinione n°2

Lucia Lusenti

Io credo che le associazioni che aiutano le donne in gravidanza siano importanti e utili. Credo però anche che ogni tipo di influenza religiosa, non mi interessa da che religione derivi, debba restare fuori, molto fuori, da ogni tipo di struttura pubblica o dello Stato.
Credo anche che le donne che hanno deciso di abortire e si recano presso consultori ed ospedali, oltre a dover sopportare il dolore fisico e psicologico dell'aborto, non si meritino di dover sopportare anche manifestazioni pro life, religiose, ecc... per quanto esse possano essere silenziose. Credo che le associazioni che vogliono aiutare le donne ad affrontare la gravidanza debbano farsi carico anche del dopo gravidanza, garantendo assistenza e supporto fin quando la mamma e il bambino non sono in grado di andarsene e reggersi sulle loro gambe. Se sono in grado di farlo che lo facciano.
Anzi, per fortuna c'è chi lo fa. Ma non davanti ai luoghi in cui si abortisce. Queste sono attività da svolgersi presso le sedi delle loro associazioni ed eventualmente sponsorizzando la loro attività con materiale informativo da lasciare anche nei consultori. In questo modo si offre libertà di scelta. Una volta però che la decisione è già stata presa e la scelta fatta, andare a manifestare (non mi interessa il livello di decibel prodotti) davanti a strutture pubbliche (e laiche) che offrono assistenza a donne in grado di intendere e volere che hanno già preso una decisione e che, magari con grande dolore, la stanno portando avanti sia inopportuno e decisamente fuori luogo (e sono molto moderata nell'esprimermi in questo momento).
Credo che le ragioni per le quali una donna decide di abortire siano personali e che l'unica cosa che un'associazione può fare è dire: “se vuoi un'alternativa io te la offro ed è questa” senza dare giudizi di valore, senza parlare di vita o di morte, senza andare a mettersi silenziosamente davanti a nessun luogo che pratichi aborti.

Credo sia doveroso lasciare un po' di dignità a chi prende decisioni di questo tipo, come è doveroso offrire un'alternativa. Per ognuna di queste due cose esiste un luogo e un tempo. Altro, decisamente altro, è il discorso dell'essere state obbligate. Anche in questo caso comunque,
se sono state obbligate, l'intervento va fatto prima. Chi le ha obbligate non cambierà idea davanti al consultorio e non credo permetterà alla donna in questione di farlo, solo perché qualcuno si è messo nelle vicinanze dell'ingresso a dire “il tuo feto è un bambino, è vivo, salvalo”.
Questa è la mia opinione.
Concludo ricordando che il prologo della 194 recita: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, (...). L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre
iniziative necessarie per evitare che l'aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.”
Questo per dire che come prima cosa il legislatore si è preoccupato di garantire la promozione di servizi ed iniziative necessarie ad evitare che l'aborto sia usato a fini di limitazione delle nascite. Quello è l'ambito di competenza nel quale possono eventualmente dovrebbero operare le associazioni a difesa della vita.
Per quanto riguarda gli obiettori invece, sempre la 194 si esprime chiaramente dicendo che “Il ginecologo può esercitare l'obiezione di coscienza. Tuttavia il personale sanitario non può sollevare obiezione di coscienza allorquando l'intervento sia "indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo" (art. 9, comma 5).
Quindi, dato che non siamo nemmeno in grado di garantire questo basilare servizio (ovvero mantenere il personale sanitario attivo anche quando l'aborto è già in atto, come ci racconta la cronaca recente) io preferirei interrogarmi sul perché il numero degli obiettori aumenta in maniera
così esponenziale proprio in un periodo in cui trovare lavoro, anche nell'ambito sanitario, diventa sempre più difficile piuttosto che indagare motivazioni personalissime relative alle decisioni che le donne prendono sul loro corpo.

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