Michele Bonforte
Le urla ed il dolore della famiglia, lo sbigottimento dei compagni di scuola, il venir meno di una vita giovane, non meritano il silenzio. Non quello delle coscienze almeno.
Di fronte alla morte ci si può ritirare in se stessi, preda di domande irresolvibili sul senso della nostra esistenza.
Ma quando questa morte ci parla di come organizziamo il nostro vivere sociale, di come trattiamo le giovani generazioni, è giusto che altre domande vengano poste.
Domande a cui forse è più agevole rispondere.
Si è tagliato ferocemente sul trasporto pubblico, costringendo gli autisti a guidare veicoli che non danno la piena visibilità degli accessi. Si sono effettuati studi sul rischio alle fermate, verificato problematicità nei mesi passati, ma non si è passati dall’osservare al fare.
E’ giusto che ora si ascolti la voce amareggiata e dolente dei giovani che hanno perso uno di loro e che vogliono parlarci.
Nel modo del lavoro sono trattati come jolly (quando un lavoro lo trovano), all’università ci vanno sempre meno (specie se provenienti da famiglie povere), ne criminalizziamo con moralismo ipocrita comportamenti diffusi (come il consumo di marjuana).
Le leggi che abbiamo fatto garantiscono la pensione agli anziani di oggi, ma la rendono incerta per quelli di domani.
Se poi si muore per andar a scuola anche a causa di autobus affollati e fermate insicure, è difficile non arrabbiarsi.
Questa società, questa crisi, c’è l’ha con i giovani?
Che cosa hanno fatto per meritare tutto questo?
16/1/2014
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