martedì 30 aprile 2013

SSN e supporto psicologico: finalmente qualcuno ne parla..

Ignazio Marino: “Unire servizi sanitari e di psicologia. Modello inglese è vincente” 
[da il Fatto Quotidiano del 28 aprile]

Finalmente qualcuno di sinistra parla del dramma della medicina, e dunque del Servizio Sanitario Nazionale, impreparata e superficiale nell'affrontare il disagio più diffuso, quello psicologico. Disagio che è la causa di mille malattie, ed il motore di un impero farmaceutico della medicina palliativa.
Mi sarebbe piaciuto che anche SEL ne parlasse nel suo programma, anche e soprattutto per quello che riguardano le dipendenze: ipocondriaci, dipendenti da sostanze, da gioco, da alcool, da shopping.... e chi più ne ha più ne metta. Per fortuna che nel magma del governo bunga bunga, alcune idee importanti vengono ancora allo scoperto.
Che ne dice il nostro esperto, nonchè candidato Giarelli?
Laura Vezzosi

lunedì 29 aprile 2013

La scelta del PD di rompere il centro sinistra è un’avventura al buio.


Uno schiaffo ai 3 milioni di partecipanti alle primarie. Nel tempo di soli due giorni una nutrita pattuglia di parlamentari PD affossa la candidatura di Prodi, imponendo la linea del governo di larghe intese a Bersani ed al resto del PD, sotto il ricatto di una rottura del partito.
Ma in questo modo il PD non è più se stesso; non solo perché affossa Prodi, ma anche perché sostituisce il metodo democratico delle primarie, con il ricatto di una minoranza di circa il 20% sul resto. Quel metodo democratico che ha ancorato il PD al sentire comune di sinistra del suo popolo, ora è sostituito dall’antica prevaricazione del gruppo dirigente sulla base, rea di non capire le necessità del momento politico. Vecchi arnesi confessionali (come Fioroni) e vecchi arnesi stalinisti (come D'Alema) si sono ritrovati nel segreto dell’urna, insieme ad altri più giovani rampanti, per far saltare il centro sinistra e imporre il governissimo.
Certo Bersani poteva rifiutare il ricatto e spingersi sul terreno della convergenza sul nome di Rodotà. Non lo ha fatto per paura della rottura del PD, ma anche per la scarsa credibilità del M5S nello stipulare un accordo che includesse anche la nascita di un governo, dopo 4 settimane di inutili tentativi.
Si apre ora una fase rischiosa della vita politica del paese: il pallino è in mano a Berlusconi, che è il vero vincitore di questi mesi. Mentre si aggrava la condizione sociale di milioni di persone con la disoccupazione e la riduzione del reddito, il governo che nasce, al di là dell’ottimismo della volonta della squadra del governo Letta, sarà costretto dal PdL a proseguire le politiche liberiste.
Se una novità sembra esserci, essa appare negativa e foriera di pesanti conseguenze per chi già oggi sta peggio. Se le intenzioni di una riduzione del prelievo fiscale verranno confermate, ed essendo che la patrimoniale sui ricchi di certo non verrà nemmeno discussa, ci troveremo di fronte ad un forte attacco alla spesa pubblica, ed in specifico quella dei comuni e delle regioni (in primis la sanità).
Le conseguenze macroeconomiche saranno di nuovo recessive (si sostituisce una spesa certa con una incerta) e socialmente inique (verranno tagliati i servizi sanitari e di welfare locale).
Tutto ciò peserà sul PD, che verrà cucinato a fuoco lento da Berlusconi, pronto poi a staccare la spina quando gli sarà utile per vincere in scioltezza una nuova campagna elettorale, dove il centro destra avrà un sistema di alleanze (Maroni, PdL e Casini-Monti) ed il centro sinistra sarà un campo di macerie.
La situazione è pessima, dunque. A noi di sinistra si impone il compito di ricostruire il nostro campo, a dargli spessore e capacità di proposta, privileggiando la sfida programmatica e rifiutando ogni sterile pulsione settaria. L’11 Maggio a Roma comincia questo cammino. Noi da Reggio ci saremo. E pare che saremo in tanti.

29/4/2013                        Michele Bonforte

Dici per noi va male. Il buio 
cresce. Le forze scemano. 
Dopo che si è lavorato tanti anni 
noi siamo ora in una condizione 
più difficile di quando 
si era cominciato. 
E il nemico ci sta innanzi 
più potente che mai. 
Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso 
un’apparenza invincibile. 
E noi abbiamo commesso degli errori, 
non si può negarlo. 
Siamo sempre di meno. Le nostre 
parole d’ordine sono confuse. Una parte 
delle nostre parole 
le ha stravolte il nemico fino a renderle 
irriconoscibili. 
Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto? 
Qualcosa o tutto? 
Su chi contiamo ancora? 
Siamo dei sopravvissuti, respinti 
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza 
comprendere più nessuno e da nessuno compresi. 
O contare sulla buona sorte?

Questo tu chiedi. Non aspettarti 
nessuna risposta oltre la tua.

A CHI ESITA - di Bertolt Brecht

La violenza disperata che interpella tutti


  
Man mano che ne vengono definiti i dettagli, il gesto violento contro i carabinieri che ha trasformato il giorno dell’insediamento del nuovo governo in una domenica macchiata di sangue, appare carico di riferimenti simbolici che rimandano plasticamente alle piaghe aperte nella carne viva del Paese. Mentre i ministri del governo Letta giuravano nelle mani del Presidente della Repubblica, sorridenti e ignari di quanto avveniva contemporaneamente in strada poco distante, un uomo quarantanovenne – emigrante in andata e ritorno, disoccupato per aver perso il lavoro nell’edilizia, separato dalla moglie e dal figlio perché rovinato dal gioco, partito da Rosarno, dove era tornato a vivere con gli anziani genitori, giunto a Roma per uccidere un ministro e farla finita con la vita – ha esploso il caricatore della pistola (acquistata al mercato nero delle armi) contro due carabinieri che sorvegliavano il palazzo del Governo. Se non verrà scoperto nei prossimi giorni nessun altro misterioso movente, la biografia recente dell’attentatore contiene in sé, snocciolati uno ad uno, gli elementi del dramma che sta attraversando l’intera nazione. La tempistica scelta li scandisce come l’incedere di una tragedia greca. Dove la classicità si salda alla cronaca.


Questa violenza disperata – e lucidamente, seppur follemente, dispiegata – interpella tutti e chiama ciascuno alle sue responsabilità.

Interpella il governo appena insediato, a due mesi dalle elezioni, che ha giurato sulla Costituzione che fonda la democrazia repubblicana sul diritto al lavoro. Non c’è nessuna compatibilità europea, nessun andamento dei mercati, nessuna troika che possano imporre di continuare ad eludere il diritto al lavoro (al punto tale che negli ultimi 5 anni la disoccupazione è cresciuta dell’82,2% ) gettando milioni di persone nella disperazione. Il diritto al lavoro – un tempo si diceva alla piena occupazione – è un principio costituzionale non negoziabile da affrontare con un impegno straordinario di attive politiche pubbliche. Le risorse si trovano passando dal keynesismo militare al keynesismo civile, ribaltando le posizioni italiane tra il terzo posto nella UE per la spesa pubblica militare (dopo Francia e Germania) e il terz’ultimo per l’occupazione (prima di Spagna e Grecia). E’ una questione di sovranità popolare, anzi di vita o di morte.


Questa violenza interpella anche l’opposizione politica e sociale, nelle sue varie articolazioni, che deve essere rigorosa, puntuale e severa nel denunciare la distanza delle politiche governative dai bisogni e dai diritti delle persone, proponendo le misure alternative, ma deve essere ancora più rigorosa con se stessa nell’uso un linguaggio inequivocabilmente scevro da ogni violenza. Le parole sono pietre. Nessuno può permettersi di usarle in maniera violenta, sopratutto chi esercita responsabilità politica ed ha esposizione mediatica: qualcun altro le può trasformare in gesti di violenza concreta. Il rispetto dell’avversario, anche del più distante, è un principio minimo di civiltà. L’alternativa è il fascismo, comunque travestito.


Oggi sono necessari responsabilità, sobrietà di linguaggio e di gesti, rispetto integrale della Costituzione e saggezza. Un primo segnale importante e forte sul piano dei simboli che il Presidente della Repubblica, all’avvio del nuovo settennato, ed il Presidente del Consiglio, all’avvio del nuovo governo, possono dare nella direzione della responsabilità, della sobrietà, del rispetto della Costituzione e della saggezza è l’abolizione della parata militare del prossimo 2 giugno, festa della Repubblica democratica fondata sul lavoro. Investendo i tre/quattro milioni di euro risparmiati per ciascun anno di legislatura a beneficio di politiche urgenti per il lavoro. Non risolveranno da soli il problema ma almeno contribuiranno a riconnettere il Paese alle sue istituzioni.  


Pasquale Pugliese

sabato 27 aprile 2013

Il Pd che non può essere sinistra e la sinistra che (ancora) non c'è

In mezzo a questo grottesco groviglio di errori (veri o presunti), trabocchetti, tradimenti, regolamenti di conti, bisogna pur cercare un filo di Arianna, un minimo di logica. Che il Pd non fosse e non potesse essere il partito della sinistra era evidente fin dalla nascita. Di più, era esplicitamente dichiarato dalle parole scolpite dal primo segretario Walter Veltroni: “Il Pd è un partito riformista, MA NON di sinistra”. Con entusiasmo un po’ sospetto - soprattutto da parte degli ex dirigenti del Pci, che del centro-sinistra storico fu fiero avversario, non sempre a ragione - si inaugurò l’epopea del contenitore unico di centrosinistra cosiddetto senza trattino, cosiddetto di tutti. Se ne cantarono le magnifiche sorti e progressive di partito del nuovo secolo, se non addirittura del nuovo millennio. Non c’erano cultura politica condivisa, progetto riconoscibile, riferimento organico all’unico e concreto modo di essere (socialista) della sinistra di governo europea. C’era, invece, un tenace e tutto ideologico tentativo di trapiantare in Italia il modello partitico e istituzionale degli Stati Uniti.

L’ala critica dei Ds giudicò impercorribile quella strada, non aderì al Pd e mise all’ordine del giorno un altro percorso, sintetizzandolo già nel nome che si diede: Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo. All’epoca, pensai e scrissi da qualche parte che solo una ipotesi poteva lasciare uno spiraglio di speranza: che il Pd diventasse un robusto ed esplicito partito di centro liberaldemocratico; che la sinistra riuscisse a ricostruire un robusto partito del socialismo europeo: che queste due componenti potessero trovare un modo, per dialogare e per costruire una possibile alleanza di governo. Un centro-sinistra vero, diciamo con il trattino, nell’autonomia delle rispettive culture politiche e forme organizzative. Ma ben presto, fin dalle elezioni del 2008, fu chiaro che l’ipotesi ottimistica era irrealistica, subito soffocata tra la catastrofica “vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria da una parte e dall’inconcludente minoritarismo di tante sigle e siglette sedicenti “di vera sinistra” dalla’altra.

Lì, proprio nel dna costitutivo, stanno le origini dello spettacolo che il Pd sta offrendo in questi giorni. Eppure, sotto il polverone, una cosa si riesce a distinguere, cioè la progressiva scalata della componente “moderata” al comando del partito. Semplificando, alcuni dicono: la presa del potere degli ex democristiani a scapito degli ex comunisti. Non sarei così categorico, perché la faglia non è così precisa e univoca. Inoltre, nel Pd ci sono anche persone “native”, che non vengono da quelle storie e da quelle etichette. Però, al netto delle liti personali e correntizie, una tendenziale trasformazione del Pd in partito di centro-centro è abbastanza evidente. Avviene in modo caotico e poco decoroso, ma c’è. In questa prospettiva, l’alleanza con l’area centrista di Monti – del resto sempre evocata da un bel pezzo di Pd, anche in campagna elettorale - non è un fatto contingente, ma una tendenza organica. E forse anche la convergenza con una fetta di berlusconiani non sarebbe strana, una volta che l’effetto calamita di Re Banana venisse meno. Dopo svariati tentativi di “terzo polo” centrista, questo potrebbe essere il prossimo.

Resta tutto intero, in ogni caso, il problema di dare una casa alla sinistra italiana, che da oltre vent’anni viaggia tra accampamenti improbabili e malcongegnati, che vanno regolarmente in frantumi. Una casa per i tanti che nel Pd non hanno mai creduto o hanno smesso di credere. E, naturalmente, per i tanti che nel Pd hanno voluto credere fino all’ultimo, con ostinazione o magari solo per mancanza di alternative, e che adesso oscillano tra la presa d’atto della realtà e l’illusione di rimettere insieme i cocci per l’ennesima volta. Come se, “cambiando tutto”, si potesse miracolosamente far (ri)nascere un Pd che mantiene tutto e tutti al proprio interno. Invece non si può, perché il problema del Pd – di questo Pd, storicamente dato - è il Pd stesso. Da questa presa di coscienza passa (o non passa) in larga misura la possibilità costruire il partito della sinistra riformista, di governo, socialista, europea che in Italia non c’è.

Stefano Morselli

martedì 23 aprile 2013

Vendola: «Si dialoga con Moro non con il Caimano». Rodotà: «Larghe intese? Il protagonista è Berlusconi»

Vendola: «Si dialoga con Moro non con il Caimano». Rodotà: «Larghe intese? Il protagonista è Berlusconi» «Si dialoga con Moro non con il Caimano». Così Nichi Vendola leaer di Sel, in una intervista su Repubblica, ribadendo il suo ‘no’ al governissimo. «Ho detto no all’operazione politica che c’era dietro la rielezione di Napolitano, il governissimo appunto. L’uomo ha fatto un grande gesto di generosità – sottolinea Vendola – Napolitano è entrato nell’arena da par suo, con la solennità di chi indica la strada di una condivisione depurata dalla vergogna. Quelle di Napolitano sono parole che avrei sottoscritto se dall’altra parte della barricata ci fosse stato Aldo Moro e una ‘balena bianca’. Invece dall’altra parte c’è il Caimano e tutta intera l’implosione del sistema dei partiti e di una irrefrenabile spirale corruttiva che ha divorato la credibilità politica». Vendola, riferendosi poi al Pd ha detto: «Voglio capire che cosa accadrà in quel partito. Non c’è bisogno di un’agenzia investigativa per tracciare l’identikt degli autori del delitto. Nella scelta per il Colle ho accettato alla quarta votazione di convergere su Prodi. Ma lo stalinismo è veleno di cui si conservano grandi scorte. E gli amici di Bruto avevano già pronta una campagna infamante contro di noi per dire: sono stati loro a farlo cadere, quelli del 1998. Vogli dire a tutto il Pd e a chi si permette di parlare di slealtà di Sel che sono indecenti. Siamo stati i più leali verso il centrosinistra alternativo al centrodestra, leali verso una persona perbene e sfortunata come Bersani». Vendola ha detto che nel Pd ci sono «interlocutori preziosi, penso a Barca. Il centrosinistra è pieno di macerie . Perciò, l’11 maggio apriremo il cantiere delle fabbriche di una nuova sinistra di governo». E riferendosi al Sindaco di Firenze, Vendola afferma: «Voglio discutere con Renzi ma mi colpisce che pensi di rottamare gli inciucisti e insieme rilanciare l’inciucio». Parlando poi di M5s,Vendola definisce i grillini «un fiume in rivolta dove c’è acqua cristallina e detriti. La sinistra deve andare incontro al cambiamento. Anche i grillini con il loro stile ingessato e settario, dovranno interrogarsi sull’accaduto». «Non posso mettere fra parentesi il fatto che la larga intesa si fa con il responsabile dello sfascio e della regressione culturale e politica di questo paese. Si faranno interventi economici, si utilizzeranno i modestissimi documenti dei saggi ma non potrà essere affrontata nessuna delle questioni che possono restituire alla politica e al parlamento una qualità interlocutoria. Larghe intese? Il protagonista è Berlusconi». Lo afferma Stefano Rodotà in una intervista al Manifesto. Secondo Rodotà, «da tutta questa vicenda è uscito vittorioso Berlusconi che sta imponendo le sue condizioni e il Pd è andato a raccomandarsi al Colle e poi ha dato di nuovo spettacolo». Riflettendo sulle parole di Napolitano, Rodotà ha fatto alcune osservazioni: «l’irresponsabilità o l’interesse dei partiti hanno trascinato il presidente nella crisi che loro sessi hanno creato – ha affermato -. Hanno messo il Presidente con le spalle al muro: siamo incapaci, pensaci tu. Un passaggio di enorme gravità politica. Napolitano è stato indotto ad un discorso da Presidente del Consiglio. Mentre diceva dell’irresponsabilità dei partiti, quelli applaudivano invece di stare zitti e vergognarsi. Hanno perso la testa». Quanto al Pd, Rodotà afferma di temere «un vero rischio per la democrazia. Il Pd sembra inconsapevole del fatto che la sua grande frammentazione apre una grande questione democratica. Se viene meno un soggetto forte della sinstra – ha sottolineato – ci sarà un puzzle impazzito, avremo il confronto Berlusconi-Grillo. Una specie di livello finale»

lunedì 22 aprile 2013

Ossigeno al cervello e sguardo prospettico


Dopo una settimana di passione, nel pomeriggio di sabato 20 aprile – spento cellulare, pc ed ogni altro mezzo di comunicazione – mi sono immerso, insieme ad una quindicina di amici partecipanti, nell’ultimo appuntamento del laboratorio di ricerca su le parole della nonviolenza presso la Casa delle culture di Modena.
Mentre è da poco iniziato il sesto scrutinio per l’elezione del presidente della repubblica, trovarsi, come da programma, a commentare coralmente il capitolo sui principi di una strategia politica nonviolenta de “L’antibarbarie” – l’ormai classico lavoro del filosofo Giuliano Pontara sulla “concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo” – è vissuto da tutti i presenti non come una fuga dalla realtà politica che si svolge sincronicamente nel chiuso del Parlamento e tiene incollati milioni di italiani ai social network, ma come un posizionarsi su un’altura all'aperto che fornisce ossigeno al cervello e consente uno sguardo prospettico, capace di buona osservazione e di fornire indicazioni per il giusto cammino in avanti.
I sei principi di azione politica che Giuliano Pontara elabora e propone ai movimenti impegnati per il cambiamento, a partire dall’esperienza del satyagraha gandhiano – e sui quali lavoriamo dal basso collettivamente – acquistano per tutti la rinnovata dimensione di punti di riferimento fondanti e generali, proprio alla luce dell’indecoroso spettacolo offerto da molti “professionisti” e “dilettanti” della politica che hanno portato il nostro Paese ad una crisi istituzionale senza precedenti nella storia repubblicana, che si somma drammaticamente alla crisi economica e sociale che coinvolge l’esistenza materiale di tante persone. Ciò di cui parliamo non sono mere “tecniche” di azione diretta, ma la traduzione nel campo dell’azione politica di precise esigenze etiche, la costruzione di un metodo.
Il fondamento generale che sta alla base dei principi che esploriamo è una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto alla tradizione culturale ed alla prassi politica consolidata: il fine non giustifica mai i mezzi, anzi “il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra mezzo e fine vi è esattamente lo stesso inviolabile nesso che c’è tra seme e albero”, come recita la celebre definizione gandhiana. La portata di questo fondamento, se assunto davvero e fino in fondo, è tale da consentire la ricomposizione della sciagurata scissione tra etica e politica che – da Machiavelli a Max Weber ai giorni nostri – ha accompagnato non solo la bassa cucina dell’agire politico quotidiano ma i fondamentali stessi delle teorie politologiche. E’ tale, dunque, da consentire l’espulsione dalla politica dalle tentazioni violente, in qualunque grado e intensità esse si manifestino.
Da qui il primo principio indicato da Pontara, l’astensione dalla violenza e dalla sua minaccia: il conflitto, anche aspro, al quale pure non ci si deve sottrarre, non può prescindere dal rispetto per la dignità dell’avversario il quale, per esempio, non può essere messo in una situazione di paura o di panico, anche perché, tra le altre cose, in una situazione del genere egli sarà più facilmente portato a ricorrere all’aggressione preventiva. Per questo motivo, il secondo principio strettamente connesso al precedente, è l’adesione alla verità: la menzogna e l’inganno sono già una forma di violenza. Il mentire è una violazione della dignità delle persona, anche avversaria, “di un suo diritto basilare a presupporre che non la si inganni”, così come lo è il distorcere i fatti a proprio vantaggio, piuttosto che cercare di capire il punto di vista dell’altro. Poi la disponibilità al sacrificio personale, che non è virtù religiosa ma eminentemente politica in quanto attiene alla disponibilità a sacrificare i propri interessi personali a vantaggio di quelli di tutti, assumendosi la responsabilità di metterci del proprio per portare avanti la causa nella quale si è impegnati. Quindi l’impegno nel programma costruttivo, ossia la realizzazione qui ed ora, per come è possibile, di quegli obiettivi per i quali ci si batte; il non rimandare a domani, all’ipotetica “presa del potere”, il cambiamento che si vuole vedere, ma cominciarne la pratica personale e collettiva a partire da sé e da noi.La disponibilità al compromesso con l’avversario, ma solo sugli obiettivi considerati non essenziali. Questo quinto principio attiene allo sforzo di non mettere nessuno con le spalle al muro, di lasciare sempre una “soluzione onorevole” in ogni conflitto, ma ribadisce altresì che la mediazione può avvenire  esclusivamente su quelli che non sono sentiti come gli obiettivi fondamentali della lotta. Infine la gradualità dei mezzi: non si deve ricorrere subito ai mezzi più drastici di azione, seppur nonviolenti, senza aver prima esplorato quelli più leggeri, preparandosi tuttavia “ad una resistenza sempre più radicale senza ricorrere alla violenza, anche nel caso in cui il conflitto dovesse procedere verso forme più acute.”
Questi punti mi pare che costituiscano gli elementi indispensabili di un metodo di lavoro politico nuovo ma “antico come le montagne”, che è tempo che i movimenti per la pace, il disarmo e i beni comuni – che si ispirano ai principi della nonviolenza – ricomincino a praticare direttamente, senza limitarsi a fare gli spettatori e i tifosi tra i “professionisti” e i “dilettanti” della politica. Sempre più complementari nei rispettivi ruoli.
Finito il denso incontro, riaccesi i mezzi di comunicazione, abbiamo capito che il vecchio Presidente ottantasettenne è stato rieletto presidente della repubblica da un parlamento che invece era stato eletto dai cittadini sull’onda di una travolgente richiesta di cambiamento. La Costituzione è sotto stress. Un pò di gente è in piazza a protestare. 
Pasquale Pugliese 

venerdì 19 aprile 2013

Quante volte, quanti episodi, quanti anni?

Quante volte? Quante volte, da quanti episodi, in tutti questi anni, si sarebbe dovuto capire che il problema del Pd non erano e non sono Veltroni, Franceschini, Bersani. Non sono D'Alema, Rosy Bindi, Matteo Renzi. Non erano Rutelli, nè Binetti, nè Calearo. Nessuno di loro, nemmeno i peggiori di loro, individualmente, erano il problema. Tutti insieme sì, ma non per fattori personali, per un fatto clamorosamente politico. Per questo, dalla nascita ai giorni nostri, il problema non è mai stato risolto. Nè cambiando segretario, nè confermandolo. Nè sostituendo pezzi, nè riparando guasti. Nè perdendo le elezioni, nè vincendole. Perchè il problema del Pd è il Pd. Lo so che è doloroso riconoscerlo, soprattutto per chi ci ha investito disinteressatamente la propria passione e il proprio impegno. Ma i fatti, come si vede, hanno la testa durissima. Il Pd non ha funzionato per il più banale e irrisolvibile dei motivi: così come è stato concepito e costruito, non poteva funzionare.

Stefano Morselli

mercoledì 17 aprile 2013

BASTA SILENZIO SULLA TRAGEDIA SIRIANA


Dopo la seconda guerra mondiale, la Siria ha guadagnato la sua indipendenza e oggi dopo questa guerra che infuria potrebbe perdere la sua dignità, l’ unità e la sovranità.
Il regime di Assad che non ha fatto le riforme che aveva promesso, ora non riesce a controllare il suo paese anche se gode ancora della devozione della sua tribù Alawita e di altri siriani che temono il fondamentalismo islamico e quello che potrebbe venire dopo.
Le Bande armate aiutate dalla Turchia, dal Qatar e dall’Arabia Saudita, addestrate  da personale della Cia sono formate da mercenari stranieri,  politicamente non motivate, perciò difficilmente controllabili,  compiono furti e rapine a scopo di riscatto, distruggendo la struttura civile della Siria, smontando le fabbriche e le strutture turistiche per venderle in Turchia. La fazione Jihadista impone il velo alle donne che sempre più spesso vengono stuprate e umiliate insieme alle loro famiglie.  
Sembra intravedere un’altra Somalia in medio Oriente.
Tutto il mondo è responsabile per la sua l’inerzia .
70.000 o più sono le vittime. Il sangue siriano continua a scorrere . Più di 2 milioni sono i senza tetto Manca il cibo e il riparo. Milioni sono i rifugiati. La borghesia emigra in Europa e in Canada. Eppure, il presidente Barack Obama e i capi europei pensano che salvare vite umane non sia un motivo sufficiente per intervenire.
Barack Obama è consapevole del rischio della facile espansione della guerra in Medio Oriente,  che creerebbe sicuramente il rischio di perdere il controllo delle  risorse energetiche.
Il rafforzamento della fazione jihadista infiltrata in Siria rappresenta una minaccia per Israele e per tutto il mondo e l’ eventuale reazione Israeliana potrebbe infiammare l'opinione pubblica araba che potrebbe portare al cambiamento dell’assetto geopolitico regionale.
Mentre la politica di Obama in Siria sta fallendo e la politica della comunità europea dimostra ancora una volta la sua incapacità di prendere decisioni., l’ unica soluzione rimasta è che l’America e la Russia riconoscessero e sostenessero  seriamente un governo di transizione formato da rappresentanti dell’opposizione non  Jihadista , adoperandosi  per il disarmo totale, costruendo legami con i siriani moderati che oggi si sentono completamente abbandonati,  pilotando   la ricostruzione democratica della Siria, alla quale tutto il mondo deve  rispetto  perché nella storia è stata la culla della civiltà umana.

Jean Bassmaji

martedì 16 aprile 2013

Vorrei un Presidente di sani principi.Costituzionali


Il Presidente che vorrei non è il custode della Costituzione, ma il suo promotore. Ne promuove la realizzazione di tutte le parti e di tutti gli articoli, sopratutto quelli finora trascurati o aggirati dai diversi poteri, statali e no. Il Presidente che vorrei è consapevole che i dodici “principi fondamentali” della nostra Carta sono l’equivalente laico dei “principi non negoziabili” delle confessioni religiose. Sono i “sani” principi, le condizioni senza le quali non il Patto non si tiene, il legame si scioglie.
Questo era chiaro ai padri costituenti i quali non scelsero parole auliche o ricercate per scrivere la Carta costituzionale repubblicana, ma le parole più comuni, comprensibili da tutti, senza alcuna ambiguità interpretativa, in un Paese nel quale solo il 40 % degli italiani sapeva leggere e scrivere.
“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, è affermato nel primo principio e poi, se non fosse chiaro cosa s’intende con ciò, lo si spiega compiutamente nel quarto: “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ebbene, l’Italia è ormai tra gli ultimi posti in Europa per il lavoro, ossia a 3.000.000 di italiani – cioè il 12 % della popolazione italiana in età lavorativa, che diventano quasi il 40 % tra i giovani (e qui siamo proprio ultimi) – questo diritto non è riconosciuto, né esistono condizioni che possano renderlo effettivo. Per loro la Repubblica è fondata sulla precarietà esistenziale, la povertà materiale, la ricattabilità morale. Il Presidente che vorrei si adopera e sollecita parlamento e governo, affinché rendano effettivo questo diritto, senza il quale non si danno tutti gli altri, dunque non si dà vera cittadinanza né legalità costituzionale. Ma solo manodopera alle mafie.
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni”, è scritto nel principio numero tre. I costituenti non si limitarono ad affermarlo, ma consapevoli che un diritto di qualcuno è tale solo se corrisponde al dovere di qualcun altro di renderlo effettivo, aggiunsero subito che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Poiché, insieme alla mancanza di lavoro, l’ignoranza è il principale impedimento “al pieno sviluppo della persona” ed alla consapevole partecipazione “all’organizzazione politica economica e sociale del Paese”, il diritto di tutti alla cultura e all’istruzione è il principale strumento di rimozione degli ostacoli. Eppure gli ultimi dati pubblicati dall’Eurostat ci dicono che l’Italia è all’ultimo posto in Europa per le spesa pubblica destinata alla cultura 1,1% (rispetto ad una media, già bassa, del 2,2% ) ed al penultimo, dopo la Grecia, per la spesa dedicata all’istruzione 8,5% (rispetto ad una media del 10,9%). Il Presidente che vorrei è attivo e responsabile rispetto a questi numeri segnalati dall’Europa (non solo a quelli dellospread), i quali ci consegnano un Paese sempre più in preda alla disuguaglianza e senza speranza di futuro per questa e le prossime generazioni.
Poi, saltando altri principi (ma su ciascuno di essi ci sarebbe molto da dire), giungiamo all’undicesimo, quello che “ripudia la guerra” non solo “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ripudiare, secondo il vocabolario Treccani della lingua italiana vuol dire “non riconoscere più come proprio qualcosa che pur è nostro (o lo è stato fino a qual momento)”. Dunque non è certo un verbo scelto a caso quello utilizzato dai costituenti in riferimento al rapporto tra la Patria e la guerra: la guerra è qualcosa che è stata nostra e, con il fascismo, ha portato il Paese al disastro, ora la liberazione dal fascismo è anche liberazione dalla guerra. La nuova Italia disegnata nella Costituzione vieta il fascismo e ripudia la guerra. Eppure, in spregio della Costituzione, da vent’anni truppe combattenti italiane sono impegnate in azioni di guerra in giro per il mondo. Eppure le spese militari, quelle che preparano le guerre e i loro strumenti, sono diventate l’unico capitolo intangibile nel bilancio dello Stato e sistemi d’arma sempre più potenti vengono acquistati da generali che poi, come premio, sono nominati ministri della Repubblica, giurando sulla Costituzione. Il Presidente che vorrei è antifascista e, in ossequio alla Costituzione, ripudia la guerra. Il primo atto che lo dimostra è l’annullamento della Parata militare del 2 giugno, che guasta – con la sua scandalosa incongruenza – la Festa della Repubblica democratica fondata sul lavoro. 
Pasquale Pugliese  

venerdì 12 aprile 2013

Pericle e i saggi

Questo gran parlare di saggi mi ha fatto tornare in mente lo studio giovanile dell’”Etica nicomachea”, laddove Aristotele, nella sua meticolosa sistematizzazione della conoscenza antica,  distingue sapienza da saggezza. La sapienza, nel sistema aristotelico, ha per oggetto la conoscenza dei principi assoluti, addirittura “necessari”, ossia ciò che non può essere modificato dall’uomo ma solo conosciuto e contemplato La saggezza, invece, ha per oggetto l’agire umano e i mezzi utilizzati, concerne “le cose che per l’uomo sono buone e cattive”. “La saggezza” spiega Aristotele “dirige l’agire nell’ambito dei beni umani”, per cui essa è una virtù eminentemente politica. L’esempio di uomo saggio  proposto da Aristotele è Pericle – da molti considerato”l’inventore della democrazia” – in tempi recenti tirato in ballo anche nella disputa politica italiana, a proposito del suo celebre “discorso agli ateniesi” del 461 avanti Cristo. Credo meriti rileggerlo:
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Se i “saggi” da lui nominati avessero consegnato questo testo al presidente Napolitano molti lo avrebbero considerato un progetto radicale, ma almeno il loro lavoro non sarebbe stato del tutto inutile.
Pasquale Pugliese

mercoledì 10 aprile 2013

C'è bisogno di disarmo. Urgente


Nonostante siamo immersi nella più devastante crisi economica dalla fine della seconda guerra mondiale, la spesa pubblica annua globale per gli armamenti è calcolata in olte 1.700 miliardi di dollari (in pratica tutti gli Stati spendono ogni giorno in armi più del doppio del  bilancio delle Nazioni Unite di un intero anno) e, contemporaneamente,  il volume di affari del commercio “legale” delle armi si avvicina ai 500 miliardi di dollari all’anno. Non si è mai speso tanto in strumenti di guerra in tutta la storia dell’umanità. Per capire le dimensioni di queste cifre è utile sapere che l’ONU calcola che con meno di 24 miliardi di dollari all’anno si garantirebbe la scolarizzazione per tutti i bambini del pianeta, uno di quegli  obiettivi del millennio all’improbabile raggiungimento dei quali mancano meno di 1.000 giorni.
In questo scenario , e dopo anni di pressione internazionale dal basso da parte dei movimenti e delle campagne civili, il 2 aprile l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il Trattato sul commercio delle armi, con 154 voti favorevoli, 23 astenuti e 3 contrari: Corea del Nord, Iran e Siria. Questo Trattato (come sempre avviene in questi casi) può esser visto come un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Mezzo pieno, perché si passa dalla sostanziale deregulation – nella quale produttori ed esportatori hanno fatto il bello ed il cattivo tempo, trafficando armi senza alcun limite ed alimentando guerre in tutte le regioni del mondo – ad una prima regolamentazione, che prevede standard internazionali legati al rispetto dei diritti umani, contro la quale non a caso si sta battendo fortemente la potente lobby internazionale delle armi, con a capo la statunitense National Rifle Association. Mezzo vuoto, perché il Trattato riguarda solo i principali sistemi d’arma convenzionali, ma prevede, come ricorda l’Archivio Disarmo, “limitate forme di controllo sulle munizioni e sulle componenti di armi, mentre restano fuori sia le armi da fuoco che non hanno un esclusivo uso militare e tutte le armi elettroniche, radar, satelliti ecc., sia i trasferimenti di armi all’interno di accordi governativi e programmi di assistenza e cooperazione militare”; inoltre, come mette a fuoco criticamente Manlio Dinucci su il manifesto, “esso non sarà vincolante ma costituirà una sorta di codice di comportamento cui i governi dovrebbero attenersi”. A questo punto il Trattato, per diventare operativo, deve comunque essere approvato da almeno 50 Paesi. Dunque l’impegno dei movimenti che ha consentito questo parziale risultato non può fermarsi qui, ma è necessario continuare a lavorare fin da subito anche nel nostro Paese affinché, come dice la Rete Italiana Disarmo “questo sia solo il primo passo di un cammino ancora più forte di regolamentazione degli armamenti  e poter annoverare l’Italia tra i primi paesi ratificanti”. Con la necessaria consapevolezza, aggiungiamo, che l’orizzonte verso il quale muoversi non è certo la sola regolamentazione, ma il completo disarmo, convenzionale e nucleare.
Se qualcuno avesse avuto dei dubbi in proposito, ci ha pensato in ultimo la Corea del Nord a levarli la quale – giusto il giorno successivo a questa votazione all’Assemblea ONU – ha fatto sapere che la risposta alle manovre militari congiunte di USA e Corea del Sud ai suoi confini sarà il lancio di missili nucleari contro gli obiettivi statunitensi raggiungibili. Pura follia, stigmatizzata da tutti – anche dal vecchio Fidel Castro storico alleato dell’ultimo paese stalinista del mondo – che porterebbe a conseguenze catastrofiche per  tutta l’area e non solo. Ma pura follia è ancor di più la presenza attuale sul pianeta  - a quasi 25 anni dalla caduta del muro di Berlino – di oltre 17.000 testate nucleari, di cui più della metà negli arsenali di USA e Russia, e le rimanenti distribuite tra quelli di Francia, Cina, Regno Unito, Israele, Pakistan,  India e, fanalino di coda, appunto, la Corea del Nord, con una decina di testate. In questo club esclusivo non si capisce chi sia il più folle se, come ricorda Anna Franchin su Internazionale “gli Stati Uniti hanno fatto più test nucleari di tutti gli altri paesi del mondo messi insieme e sono gli unici ad aver realmente fatto esplodere delle bombe atomiche in guerra, quelle su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945. Sono anche i soli ad avere a disposizione armi atomiche nelle loro basi all’estero, grazie al programma di condivisione nucleare della Nato”. Ossia in Belgio, Germania, Paesi Bassi, Turchia e Italia.
Dunque siamo tutti seduti su una polveriera pronta ad esplodere, con micce sempre accese, e in una bolla di totale rimozione del pericolo dalle coscienze. Insomma, c’è bisogno di disarmo militare e culturale, convenzionale e nucleare. Urgente.
Pasquale Pugliese

Il fumo negli occhi della polemica sulle commissioni parlamentari

Dunque, si discute di paragrafi, comma tale e comma tal altro, codicilli e sotto-codicilli. All'incrocio tra avvocati Azzeccagarbugli, castello di Kafka, labirinto di Minosse e il mitico Comma 22 (può essere esentato dal volo solo chi è pazzo, ma chi chiede di essere esentato dal volo Non è pazzo). 

Questa storia delle commissioni parlamentari e della "occupazione" della Camera - in un Paese senza governo, senza progetto, senza rotta politica - è tragicomica., Sul piano tecnico-giuridico-istituzionale, non sostengo una tesi in particolare: non ho la conoscenza dettagliata della materia e non ho neppure gran voglia di approfondirla, perchè ritengo che questa polemica sia, nella migliore delle ipotesi, una esercitazione accademica del tutto astratta dai problemi veri. Ma, in tutta evidenza, la questione non è accademica, è politica. Nel senso che questa caciara è fumo negli occhi. fuffa propagandistica, per non far capire al "popolo bue" chi vuole che cosa. In questa valutazione, naturalmente, c'è una componente di profondissima disistima politica nei confronti di Beppegrillo, che vedo come l'ennesima, grottesca maschera nello sgangherato teatrino della politica italiana. 

Tutto ciò premesso, io sarei addirittura per farle stasera, le commissioni, in modo che già domani appaia lampante la pretestuosità dell'argomento e Beppegrillo sia di nuovo nudo davanti ai problemi veri (e ai suoi elettori). Dopo di che, possiamo stare certi che si inventerebbe qualche altro specchietto per allodole - all'insegna del "chiagni e fotti" - allo scopo di perdere altro tempo, aizzare ancora chi abbocca contro i partiti cattivoni (tutti gli altri partiti) e vedere di nascosto l'effetto che fa. Vengo anch'io? No, io no.

Stefano Morselli