lunedì 13 aprile 2015

Riforme o controriforme? La restaurazione renziana

INTRODUZIONE di Lorenzo Capitani

Le immagini che scorrono, inquietanti, nel corso stesso delle ultime ore, in ogni ramo della rete comunicativa, ci parlano, prepotentemente, dei limiti fortissimi che segnano l’agire politico non solo nel nostro angusto teatrino nazionale. Penso alle stragi degli studenti cristiani in Kenia, alla nuova tragedia palestinese a Yarmouk, alla difficoltà di imprimere una svolta positiva ai conflitti internazionali aperti, con gli interessi che si intrecciano e si aggrovigliano, ad una Europa ancora alquanto sorda rispetto alla urgenza di nuovi paradigmi.

E qui, da noi? Siamo presi tra slanci propagandistici e puntuali disillusioni, anche se accuratamente rimosse. Di cosa ci parla l’Italia di oggi?
Forse in primo luogo di una semplice, e per certi versi drammatica, contraddizione:
  • da un lato propositi roboanti di cambiamenti fondati sulla velocità, sulla decisione, sul fare, sulla insofferenza per quanti, individualmente o collettivamente, si permettono di richiamare più i contenuti che i tempi, le necessarie relazioni e composizioni tra interessi diversi, tipici di una società complessa e soprattutto oggi più disuguale che mai, la inevitabile profondità di scelte di governo o istituzionali che non hanno certo bisogno di eccessi di semplificazioni o palesi unilateralismi 
  • dall’altro le “dure repliche della storia”, come meccanismi economici che stentano, nonostante la propaganda e le speranze, a profilare orizzonti accettabili, specie per la piaga della disoccupazione (in primis giovanile e femminile), provvedimenti riformatori che, presentati come fortemente innovativi, mostrano subito la loro inefficacia, alimentando nuovi disagi e nuovi pesanti interrogativi (il caso della cosiddetta “buona scuola” o, per fare un altro esempio significativo, la difficoltà di sostenere adeguatamente la pluralità dei centri antiviolenza, nonostante l’approvazione della Convenzione di Istanbul …) 
In sintesi, si potrebbe anche dire Demagogia e ricette mancate, come recita il titolo di un acuto intervento sul manifesto di questa mattina da parte di una mente giuridica, libera e raffinata, come quella di Masimo Villone.

Affrontando una delle malattie più antiche e profonde del nostro sistema politico, come quella della corruzione, con abbondanza di argomenti, Villone ci mette in guardia dall’enfasi sui provvedimenti emergenziali, sul semplice inasprimento delle sanzioni, sui poteri salvifici del super-esperto di turno.

Combattere la corruzione richiede una strategia globale e coerente, volta prevenire e ostacolare l’attività criminosa giorno per giorno, in ogni luogo in cui si gestisce la cosa pubblica.

E, per venire ai temi di stasera, l’idea assai diffusa che solo una forte concentrazione del potere rappresenterebbe un concreto argine ai corrotti, elevando il grado di efficacia del decisionismo governativo, Villone ci propone un ragionamento antico ed elementare, che tuttavia oggi appare in netta controtendenza.

Riforme costituzionali ed elettorali che favoriscano la rappresentatività e le new entries, e tendano a ripristinare gli strumenti della responsabilità politica e istituzionale. Questo si ottiene abbattendo le soglie, riducendo al minimo gli incentivi maggioritari, evitando l’ipertrofia degli esecutivi a danno delle assemblee elettive. Riforme che contengano i costi della politica, ad esempio scegliendo il collegio piuttosto che il voto di lista e preferenza, e parallelamente ripristinando un finanziamento pubblico ragionevole, rigoroso, a prova di imbroglio.

Segue un circostanziato elenco di riforme del tutto praticabili (e in sintonia con il dettato costituzionale), che da solo basterebbe a smentire il consueto ritornello sulla mancanza di alternative di chi non si riconosce nel pensiero dei “governanti”. A volte i “governati” hanno lo sguardo più lungo, se solo lo si voglia incrociare..

Del resto, non occorre possedere una particolare conoscenza storica, per ricordare che i processi corruttivi della politica italiana, avviatisi già nell’epoca del trasformismo di fine Ottocento, non hanno certo arretrato nell’epoca di maggior concentrazione di potere che l’Italia abbia conosciuto, con il regime autoritario mussoliniano. E il monito drammatico di Enrico Berlinguer sulla questione morale, che spesso ci piace citare un po’ a sproposito, era fondato non tanto o non solo sulla disonestà degli individui, ma soprattutto sulla degenerazione inevitabile di un sistema politico se fondato su partiti/centri di potere, strumenti di occupazione del potere, in cui la distinzione partito/governo veniva perdendosi del tutto.

Ho utilizzato il termine “riforme” appositamente, poiché nel discorso pubblico del momento è davvero singolare come l’abuso del termine stesso serva a ricoprire “ideologicamente” provvedimenti che, nel contenuto e nell’ispirazione, appaiono rivolti all’indietro.

E siamo qui per parlarne stasera. Per capire meglio cosa sta succedendo e cosa è già successo. Con interlocutori che si sono trovati in prima fila a combattere una difficile battaglia, con competenza e con determinazione, ma anche con una forte esposizione personale e un notevole isolamento mediatico. A me il compito di introdurre i loro interventi, ponendo solo alcune questioni, in parte derivanti dal lavoro della Associazione reggiana per la Costituzione, formatasi dopo la battaglia referendaria del 2006, che faticosamente cerca di mantenere viva una autentica sensibilità costituzionale, contrastando processi di revisione sostanziale, subito presenti dopo l’esito referendario, ma che soprattutto nella attuale stagione hanno di nuovo preso una pericolosa consistenza (Assemblea annuale il 22 aprile, a cui siete tutti invitati).

Qui a Reggio, città di padri costituenti, quando si parla di Costituzione, non siamo abituati a tergiversare. Dunque la prima questione su cui vorrei dialogare è la seguente: stiamo ormai attraversando una fase di svuotamento sostanziale dell’impianto costituzionale, che ha coinvolto due suoi pilastri come il lavoro e la sovranità popolare fondata sul sistema parlamentare.

Dopo il Jobs Act “la Costituzione non è più la stessa” è stato ricordato in modo convincente da Michele Prospero. In luogo del diritto del lavoro, frutto di stagioni intense di battaglie politiche e sindacali, il diritto del più forte (la libertà dell’imprenditore di licenziare), sigla nella norma “il potere sanzionatorio del capitale sul lavoro”.

Tutta la prima parte è qui in aperta sofferenza, ridotta ad una pura insignificante astrazione, sia per quanto riguarda la stretta relazione tra lavoro e cittadinanza sia per quanto riguarda i limiti della proprietà nel quadro delle più elevate esigenze di una comunità sia per quanto riguarda la visione del governo dei processi produttivi da parte dei soggetti che ne sono coinvolti.

Quanto al secondo pilastro, congiunto strettamente al tema della rappresentanza e della sua declinazione, concordo con chi parla ormai di politica al tempo dell’esecutivo. Ma sembra ormai prevalente, anche in vaste zone dell’opinione pubblica, la critica alla centralità del sistema parlamentare e l’urgenza di imprimere una svolta in senso dirigistico. Anche in seguito alle cattive prove della stesso Parlamento, siamo così di fronte ad una nuova ondata di “antiparlamentarismo”, del resto una delle tare storiche della cultura politica italiana ( origine antiche da D’Annunzio a Mussolini). Come non ricordare che cento anni fa, di questi giorni, tra aprile e maggio, il parlamento e la sua maggioranza vennero messe di fronte al fatto compiuto, con il concorso di una minoranza rumorosa? E si aprì la strada alla più dolorosa delle nostre esperienze belliche.

Si è così venuto di nuovo materializzando uno dei motivi ispiratori della grande riforma di matrice craxiana, divenuto con il tempo un vero “mantra”:
La crisi del Paese, la sua arretratezza, le sue disuguaglianze? Tutta colpa della obsolescenza delle istituzioni e del suo documento fondativo, troppo antico e desueto; la difficoltà del processo legislativo, dei suoi contenuti, della sua efficacia? Tutta colpa del biparlamentarismo paritario, visto come la madre di tutte le inadempienze.

Nulla hanno potuto ragionamenti dei più informati sulla inconsistenza di questi argomenti. Non dunque la politica, la sua incapacità di promuovere un reale rinnovamento, la sua cultura arretrata e divisiva, ma le istituzioni, che certo potevano e dovevano essere ripensate e rimodulate, ma non davvero considerate come le uniche realtà sul banco degli imputati. Non l’applicazione della Costituzione nei suoi aspetti più significativi, rimasti appannati o dimenticati, ma la sua profonda revisione proprio su questioni rilevanti come quelle dell’art.3. Di questo oggi stiamo parlando.

Dunque la domanda che tutti ci coinvolge. Come è potuto accadere? Come è possibile, se possibile, rimontare la corrente?
Proprio ieri la Commissione della Camera dei deputati ha avviato le procedure per la discussione dell’Italicum, su cui vorrei spendere qualche parola.
In primo luogo perché mi pare che la questione sia stata inizialmente sottovalutata, forse anche oscurata dalla cosiddetta riforma del Senato, in secondo luogo perché proprio sui contenuti di questa legge possono essere resi evidenti i segni distintivi di una visione che altera profondamente il sistema parlamentare a favore di una “democrazia di mandato” o meglio di un presidenzialismo mascherato, senza pesi e contrappesi.
Credo che di recente Michele Prospero abbia messo bene in evidenza la ratio di questo provvedimento.
La costruzione meccanica di un vincitore altera a tal punto la struttura del parlamentarismo, che preferibile sarebbe passare, con il rigore necessario e soprattutto i contropoteri richiesti, all’incognita di una forma di governo presidenziale piuttosto che forzare in maniera così irrazionale e costosa le compatibilità del regime parlamentare sino a sfigurarlo. L’obbligo della vittoria fa inclinare tutto il congegno competitivo nella direzione della governabilità come artificio e la rappresentanza perde qualsiasi rilievo fondativo del rapporto politico, è un mero contorno inessenziale.
Con quali strumenti viene messa in pratica questa visione è ormai noto e su questi torneranno, se vorranno, i nostri ospiti: l’assurdità del premio di maggioranza in sede di ballottaggio (nel caso del non raggiungimento del 40%) rappresenta forse l’elemento più clamoroso, un unicum nelle democrazie occidentali ( che lo prevedono in genere nei singoli collegi per ampliare il radicamento territoriale del deputato che in astratto si separa dalla disputa nazionale), la possibilità concreta che una singola lista con una ridotta rappresentanza possa determinare le scelte più importanti di natura politica e costituzionale, sulla scia di un premio spropositato, compreso il controllo di fatto dei più importanti organi di garanzia, la composizione prevalentemente di nominati …

Il modello di una investitura del leader o del sindaco d’Italia, con il parlamento in funzione accessoria.
Il capo vincitore crea la rappresentanza, e una schiera di nominati fa da scudo alla sua volontà di potenza. L’anomalia di un governo costituente che si crea la legge elettorale per vincere e la confeziona secondo un calcolo di immediata convenienza, è davvero un unicum in democrazie di un qualche pregio.

A questa disarmante valutazione di Michele Prospero dello scorso gennaio, va ora aggiunto che ci sia appresta a votare, con il metodo che conosciamo, una legge fondamentale che detta le regole del gioco, contando su uno schieramento che non corrisponde neppure più alla maggioranza di governo. E con mille pressioni, non ultima la minaccia, davvero impensabile, del voto di fiducia.

Come è possibile? Si può fermare questo processo. In caso contrario, come contrastarlo?
Credo non sia un caso che comincino ad emergere serie perplessità anche nei più solerti cantori del renzismo. Si può dunque sperare in una maggiore consapevolezza anche mediatica?
Sulla riforma del Senato non voglio aggiungere nulla, se non chiedere di aiutarci a chiarire l’incongruenza, a volte l’assurdità di tutto l’impianto, che è riuscito a complicare una materia già di suo impegnativa.

Vorrei soltanto segnalare il cosiddetto “combinato disposto” con la riforma elettorale, che rafforza la visione di un restringimento della rappresentanza e soprattutto ricordare che comunque si dovrà approdare ad un referendum, concepito da Renzi come una gentile concessione, in realtà, come è noto, previsto dal 138. Tale appuntamento rischia di presentarsi come una grande insidia per chi guarda criticamente a questi processi e di conseguenza come una grande opportunità per chi già ha puntato sulla falsa contrapposizione tra innovatori e conservatori.
Per questo occorre attrezzarci sin da oggi e pensare ad una strategia fatta di diversi atti, di chiaro significato politico, aperto a tutti, ma anche con concreti passi di tipo giuridico e regolamentare.

CONCLUSIONE
Su quest’ultima considerazione vorrei proprio concludere. Infatti siamo abbastanza convinti, tra di noi, delle nostre critiche, ma fuori di qui misuriamo si può dire ogni giorno la nostra debolezza.
In primo luogo, fatichiamo a coniugare la nostra visione democratica, la denuncia dei pericoli che corre la nostra amata Costituzione, con i problemi reali che la crisi ha proposto alla maggioranza dei cittadini, che a volte sembra pensare che qualche rinuncia sul piano dei diritti possa giustificarsi se foriera di speranze di ripresa. Bisogna dimostrare che tutto ciò è illusorio,

In secondo luogo, alla insistita e insidiosa campagna del “non ci sono alternative” dobbiamo saper rispondere con mobilitazioni ed esempi concreti, nelle contrattazioni, nei movimenti ambientalisti, nella elaborazione culturale. Per questi aspetti l’invito alla coalizione sociale, su cui il nostro Maurizio Landini si è voluto spendere in prima persona, non deve essere lasciato cadere, ma declinato in modo originale, a partire dalle esperienze territoriali, da un contatto diretto con le persone.

In terzo luogo, proprio sui temi costituzionali, va seriamente respinta l’accusa che spesso ci viene rivolta di essere potatori di una visione conservatrice, sulla base di proposte alternative che ci sono e possono far funzionare meglio le stesse istituzioni senza snaturarle. Un discorso difficile ma praticabile. Stefano Quaranta a Milano ci ha molto aiutato. E ci potrà ancora offrire delle idee.

Ma su tutto forse dobbiamo apparire di più e meglio come coloro che pensano non allo sviluppo, questo sviluppo, con le sue contraddizioni e disuguaglianze, ma al progresso, secondo una visione più libera e innovativa dei diritti e delle speranze di donne e uomini che non vogliono rassegnarsi alla logica dell’uomo solo al comando.

Un’eco della nota contrapposizione tra sviluppo e progresso presente nelle acute denunce dell’ultima stagione di un intellettuale scomodo e inattuale che ci lasciò quaranta anni fa.

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